Sono molti gli aspetti del nostro Universo che ci sono ancora sconosciuti, proprio per questo forse ci affascinano più di altri. Ma studiarli e cercare di comprenderli porta spesso i ricercatori a doversi spingere oltre la fisica tradizionale, addentrandosi nei meandri di una nuova fisica, proprio come stanno facendo un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), che stanno cercando di interpretare le anomalie dei blazar.
Il team era infatti al lavoro per cercare di spiegare le anomalie osservate in alcuni blazar, quando ha proposto una possibile spiegazione che si basa su delle particelle ipotetiche, mai osservate direttamente, ma solo teorizzate e indicate come un possibile candidato per la composizione della materia oscura. Si tratta delle particelle chiamate Axion-Like Particle, o più semplicemente Alp, delle particelle leggerissime e prive di carica, che si accoppiano ai fotoni di luce.
I blazar sono dei nuclei galattici attivi che emettono dei fotoni gamma, i quali hanno un energia di miliardi di volte maggiore rispetto a quella dei fotoni visibili. Sono distinguibili da altre sorgenti di energia grazie al loro spettro che rappresenta il variare del numero dei fotoni al variare dell’energia ed è caratteristico di questi oggetti celesti.
Ma nel loro viaggio verso il nostro mondo, i fotoni ad alta energia emessi dai blazar si incontrano e si scontrano con i fotoni delle radiazioni di fondo dell’Universo. Per questo gli spettri dei blazar osservati dalla Terra, appaiono molto diversi da quelli emessi.
Come spiega Giorgio Galanti, dell’INAF di Milano, “confrontando gli spettri emessi con quelli osservati ci siamo resi conto che sembrerebbe esistere una correlazione fra i blazar e la loro distanza, fatto che ci ha stupiti, perché non c’è nessun meccanismo fisico noto in grado di spiegarla, insomma, sembra che qualcosa non funzioni nel contesto standard”.
Ma spiegare questa correlazione non è affatto banale e i ricercatori hanno dunque deciso di approcciare l’intera vicenda in un modo decisamente non convenzionale, ovvero ricorrendo alle Alp. Marco Roncadelli dell’INAF di Milano e dell’INFN di Pavia, ritiene che la propagazione dei fotoni venga alterata dal campo magnetico extragalattico e che i fotoni a volte si comportano da semplici fotoni e a volte invece come alp. “In altre parole saremmo in presenza di oscillazioni fotoni-Alp, simili alle oscillazioni dei neutrini da un tipo a un altro”.
In pratica, secondo questa teoria, quando si tratta di normali fotoni, questi vengono parzialmente assorbiti dalla luce di fondo, mentre quando si tratta di Alp questo non si verifica. Questo significa che non tutti i fotoni sono assorbiti e “l’iniziale correlazione fra gli spettri emessi dei blazar e la loro distanza sparisce e riporta l’unica possibile soluzione in accordo con l’intuizione fisica”, afferma Roncadelli.
Ma anche se le Alp risolvono le anomalie dei blazar, rimane comunque la difficoltà di individuare queste particelle, che fino ad ora sono soltanto state teorizzate e mai osservate. Questo porta dunque i ricercatori ha chiedersi come le Alp possano essere identificate.
Secondo Alessandro De Angelis, professore all’Università di Padova e ricercatore dell’INFN e dell’INAF, infividuare le Alp potrebbe presto essere possibile, addirittura con due diversi metodi. “Uno è basato sulla possibile evidenza indiretta, utilizzando i rivelatori di raggi gamma di nuova generazione che arrivano fino all’energia dei fotoni gamma, come il Southern Wide-field Gamma-ray Observatory (SWGO) e il Cherenkov Telescope Array (CTA). Un ruolo strategico sarà giocato anche in CTA dai piccoli telescopi del tipo Astri, il cui prototipo è stato realizzato in Italia su proposta di Giovanni Bignami (astrofisico di fama internazionale, scomparso nel 2017). Invece, l’evidenza diretta può provenire solo da esperimenti di laboratorio, uno dei quali è in corso ad Amburgo, ma per raggiungere i valori dei parametri del nostro modello è necessario un potenziamento che sarà effettuato fra qualche anno”.
Lo studio, tra i cui firmatari figura anche Bignami, è stato pubblicato sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
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