Foto di Caleb Woods su Unsplash
Quando si parla di autismo, il volto che viene in mente è spesso quello di un bambino maschio. Per decenni, la ricerca e i criteri diagnostici si sono concentrati su modelli maschili, lasciando in ombra un’intera popolazione di donne e ragazze autistiche che ancora oggi faticano a ricevere una diagnosi accurata e tempestiva.
Le stime ufficiali indicano che i maschi hanno una probabilità quattro volte maggiore rispetto alle femmine di ricevere una diagnosi di disturbo dello spettro autistico (ASD). Tuttavia, numerosi studi suggeriscono che questa differenza potrebbe non riflettere una reale disparità nella prevalenza, bensì un forte bias diagnostico. Le caratteristiche dell’autismo nelle femmine tendono a manifestarsi in modo diverso, più sottile e meno riconoscibile secondo gli standard tradizionali.
Una delle principali differenze risiede nella cosiddetta “mimetizzazione sociale” (masking): molte ragazze autistiche imparano sin da piccole a imitare i comportamenti sociali delle coetanee neurotipiche per adattarsi e non sentirsi escluse. Questo le porta spesso a passare inosservate, anche agli occhi di insegnanti e specialisti. Ma il prezzo di questa mimetizzazione può essere alto: ansia, depressione, burnout e una crescente difficoltà a comprendere e accettare se stesse.
La tardiva o mancata diagnosi comporta gravi conseguenze non solo psicologiche, ma anche pratiche. Le donne autistiche che non ricevono supporto adeguato faticano più degli uomini a trovare e mantenere un impiego, a instaurare relazioni stabili e a ricevere trattamenti mirati per problematiche concomitanti. Spesso vengono erroneamente diagnosticate con disturbi dell’umore o della personalità, perpetuando un ciclo di frustrazione e incomprensione.
Colmare il divario significa, prima di tutto, rivedere i criteri diagnostici per includere manifestazioni dell’autismo più comuni tra le donne. Inoltre, è necessario formare il personale medico, scolastico e psicologico per riconoscere segnali meno evidenti. La ricerca sta finalmente iniziando a dare voce anche alle donne nello spettro, ma il cammino è ancora lungo.
Un altro elemento fondamentale è il ruolo delle testimonianze dirette: molte donne adulte ricevono una diagnosi solo dopo aver riconosciuto sé stesse leggendo o ascoltando racconti di altre donne autistiche. La narrazione autobiografica, in questo senso, è uno strumento potente di consapevolezza collettiva e cambiamento sociale.
Occorre anche sfatare il mito dell’autismo “al femminile” come “più lieve” o “meno invalidante”. Ogni persona autistica ha un’esperienza unica, con sfide specifiche. Il rischio è quello di invalidare la sofferenza delle donne che, pur avendo un’intelligenza nella norma o sopra la media, vivono un disagio significativo nella quotidianità.
È il momento di ascoltare, includere e agire. Perché l’autismo non ha un solo volto, e riconoscere questa pluralità è il primo passo verso una società più equa, comprensiva e attenta ai bisogni di tutte le persone nello spettro.
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