Una nuova analisi, basata sulla cenere prodotta durante un’antica eruzione vulcanica, fa risalire un primo essere umano trovato a Kibish Omo, in Etiopia, a 233.000 anni fa, supportando la teoria della “prima evoluzione” per l’Homo sapiens.
In passato si riteneva che l’evoluzione dell’Homo sapiens fosse iniziata circa 200.000 anni fa. Ma ora sembra chiaro che sia iniziata molto prima e che ci siamo mescolati con altre specie umane fino a quando queste non si estinsero tutte, come conferma la datazione del fossile trovato ad Omo.
Omo 1, come è stato soprannominato l’esemplare, risale infatti a circa 36.000 anni prima della data originariamente attribuita al primo esemplare di Homo sapiens trovato nel sito di Kibish Omo. I resti fossili, trovati negli anni Sessanta, erano stati infatti inizialmente datati attorno ai 197.000 anni fa. Contemporaneamente un altro gruppo di Homo sapiens fu ritrovato nel sito di Herto, sempre in Etiopia e furono datati attorno ai 160.000-155.000 anni fa.
Ma come le date erano state molto contestate e ora, questa nuova analisi geochimica dei resti vulcanici trovati sopra le ossa di Kibish, mostrano una datazione ben più indietro nel tempo, risalente appunto a 233.000 anni fa. Questo rende Omo 1 il primo esemplare conosciuto di Homo sapiens nell’Africa orientale. L’indagine sull’età degli umani di Herto è invece ancora in corso.
Questa nuova datazione è dunque in accordo con il ritrovamento di altri esemplari di cui il più sorprendente è quello datato circa 300.000 anni fa, rinvenuto a Jebel Irhoud, in Marocco. Inoltre vi è stato anche il ritrovamento di una mascella umana moderna dalla grotta di Misliya, nel nord di Israele, risalente a circa 200.000 anni fa. Ma sull’appartenenza di questi fossili all’Homo sapiens, vi sono molte controversie.
Come spiega Aurélien Mounier, paleonatropologo del Museo del Genere Umano a Parigi e uno degli autori di questo nuovo studio, ciò che rende controversa l’appartenenza di questi due fossili alla nostra specie, è la forma del loro cranio e altre caratteristiche morfologiche. Secondo Mounier infatti, “ciò che rende Misliya moderna è soprattutto la forma della mascella e la presenza di una fossa canina. (…) questo è anche ciò che rende moderno Irhoud 1. Tuttavia, la morfologia del resto del cranio non è moderna.”
Gli esemplari trovati invece ad Omo e Herto hanno le moderne morfologie per quanto riguarda il mento e la volta cranica alta. Mounier afferma infatti che “Omo 1 è il più antico esemplare completamente moderno, il più antico Homo sapiens come definiamo morfologicamente la specie al giorno d’oggi. Ecco perché queste nuove date sono importanti. Potrebbero non dirci molto su come si sono evoluti gli esseri umani moderni, ma ci dicono che prima di 200.000-230.000 anni fa, gli ominidi che secondo il nostro standard attuale sono riconoscibili come Homo sapiens, erano già presenti nell’Africa orientale”.
Inoltre, come spiegano gli autori dello studio su Omo 1, questo spostamento dell’età all’indietro del più antico fossile di Homo sapiens conosciuto nell’Africa orientale è coerente con prove separate che mostrano come l’umano moderno sia più antico di quanto si ritenesse in precedenza.
Questa ipotesi infatti emerge anche da alcuni studi sull’analisi del DNA antico. Secondo queste indagini infatti sembrerebbe che l’H. sapiens non sia nato da una popolazione unica dell’Africa orientale, emersa circa 200.000 anni fa, come si riteneva in precedenza.
Come spiega infatti Mounier, questi nuovi risultati sull’analisi del genoma mostrano infatti che la divergenza genetica dell’H. sapiens sia iniziata circa 300.000 anni fa. Il paleoantropologo afferma infatti: “penso che stia lentamente emergendo un nuovo consenso nel campo che riconosce la complessità dei processi evolutivi che hanno dato vita alla nostra specie. In effetti, sembra probabile che l’H. sapiens sia emerso in Africa dall’interazione e dalla mescolanza di diverse popolazioni arcaiche”.
Con questa nuova consapevolezza collima dunque la nuova datazione di Omo 1, che si sposta indietro di 36.000 anni, ovvero da 197.000 a 233.000 anni fa. Inizialmente Omo era stato datato sulla base di strati di cenere corrispondenti ai tempi delle eruzioni vulcaniche, ma la determinazione originale è stata contestata, come spiega la vulcanologa Céline Vidal, dell’Università di Cambridge, coautrice dello studio.
La professoressa Vidal spiega infatti che lo strato di venere vulcanica che copriva le ossa di Omo 1 indica che l’eruzione è avvenuta dopo la morte della persona Omo ed è quindi successivo alla sua morte. I problemi e gli errori nella datazione del reperto sono dovuti al fatto che quel particolare strato non può essere datato direttamente poiché la cenere è molto fine e su di essa non può essere utilizzata la tecnica classica di datazione degli strati di cenere.
In questi casi spiega Vidfal, si procede alla datazione mediante l‘identificazione della firma chimica della cenere. Questo processo si basa sul fatto che ogni eruzione ha la propria impronta chimica, anche se si tratta dello stesso vulcano.
Una volta identificata la firma chimica specifica dell’eruzione, questa si può confrontare con altri strati di cenere provenienti da altri luoghi che abbiano la medesima firma e che quindi appartengono alla stessa eruzione.
Dopo aver quindi individuato la tempistica e l’impronta chimica di tutte le eruzioni catastrofiche avvenute in Etiopia tra 300.000 e 60.000 anni fa, ovvero quando i nostri antenati vivevano in queste regioni, hanno potuto stabilire come queste siano state legate all’evoluzione e alle migrazioni umane.
Inoltre confrontando le diverse firme chimiche con quella delle ceneri che coprivano Omo 1, hanno potuto stabilire che esse appartenevano all’eruzione del vulcano Shala, avvenuta 233.000 anni fa. Questo significa che le ossa di Omo 1 devono essere più vecchie di 233.000 anni.
La nuova datazione di Omo 1 dunque si si adatta ai nuovi modelli dell’evoluzione umana moderna che suggeriscono che la nostra specie si è discostata dai nostri antenati ominidi più vicini tra 350.000 e 200.000 anni fa, come afferma Mounier.
Ph. Credit: John Fleagle, via Wikimedia
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