Un articolo pubblicato il mese scorso sulla rivista FEMS Microbiology Ecology sostiene che i primi colonizzatori di Marte potrebbero essere “microrganismi” come batteri, virus e funghi in grado di contribuire a molti dei processi biologici strumentali alla vita anche sul Pianeta rosso. Jose Lopez, professore presso la Nova Southeastern University e uno degli autori dell’articolo, propone un approccio alla colonizzazione planetaria che inizia con un piano sullo studio dei microbi che potrebbero sostenere la vita in ambienti extraterrestri.
“La vita come la conosciamo non può esistere senza microrganismi ‘buoni‘ “, ha detto in un comunicato stampa. “Per sopravvivere su pianeti sterili (e per quanto ne sappiamo al momento, lo sono tutti quelli studiati fino ad oggi), dovremo portare con noi alcuni di questi microbi“. Occorre però fare chiarezza: l’idea presentata nel documento viola le rigide linee guida di non contaminazione che la NASA e tutti i programmi spaziali hanno adottato ormai da anni, politiche che esistono per validissime ragioni di sicurezza.
Quando si tratta di apparecchiature spedite nello spazio, in genere tutto è accuratamente sterilizzato e protetto da germi e contaminanti, proprio come un medico che prepara i suoi strumenti per un intervento chirurgico; non possiamo infatti permettere che gli ambienti incontaminati che stiamo cercando di studiare vengano compromessi in nessun modo. Ma Lopez e colleghi sostengono che l’introduzione di microbi utili potrebbe effettivamente dare il via al processo di “terraformazione” di Marte e sostenere la vita sul pianeta, ad oggi inospitale.
“L’introduzione di questi microbi non deve essere per forza scongiurata, perchè è inevitabile“, si legge nel documento. “Ipotizziamo la quasi impossibilità di esplorare nuovi pianeti senza trasportare e/o introdurre negli ambienti questi organismi“. Sulla Terra, questi microrganismi sono fondamentali per molti dei processi che sostengono la vita, come la decomposizione e la digestione, influenzando persino il clima terrestre. Il documento sostiene che i microbi più adatti per questo compito potrebbero essere gli estremofili, organismi che sono “ipertolleranti” degli ambienti più estremi e che ivi prosperano.
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