Foto di Julián Gentilezza su Unsplash
Negli ultimi anni si è parlato sempre di più del burnout, un fenomeno che colpisce soprattutto i Millennials, la generazione nata tra i primi anni ’80 e la metà degli anni ’90. Questo gruppo, cresciuto con l’idea che il successo dipenda esclusivamente dall’impegno personale, si trova oggi schiacciato tra aspettative irrealistiche, insicurezza economica e un mondo del lavoro sempre più esigente. Ma come si è arrivato a questa situazione?
I Millennials sono stati educati a credere che il valore di una persona si misuri in base alla sua produttività. Cresciuti tra competizioni scolastiche, stage sottopagati e l’illusione della meritocrazia, hanno interiorizzato l’idea che fermarsi equivalga a fallire. Il lavoro non è più solo un mezzo per vivere, ma un’identità. Questo porta a un ciclo senza fine di overworking, in cui la paura di non fare abbastanza si trasforma in ansia cronica.
A differenza delle generazioni precedenti, i Millennials hanno dovuto affrontare crisi economiche, affitti alle stelle e un mercato del lavoro sempre più precario. Molti non possono permettersi di comprare una casa o costruire una stabilità finanziaria, alimentando sentimenti di insicurezza e inadeguatezza. L’ansia del futuro diventa una compagnia costante, con effetti devastanti sulla salute mentale.
Se il burnout lavorativo è ormai riconosciuto, esiste anche un burnout sociale e personale. I Millennials si trovano a dover gestire relazioni, autocrescita, fitness, passioni e presenza sui social media, il tutto senza mai abbassare il ritmo. Il risultato? Una generazione sempre stanca, incapace di godersi il presente perché perennemente proiettata verso il prossimo obiettivo.
I social network giocano un ruolo chiave nell’aggravare il senso di inadeguatezza. Scorrendo Instagram o LinkedIn, si vedono solo carriere brillanti, viaggi esotici e vite apparentemente perfette. Questo confronto costante amplifica l’ansia e la depressione, facendo sentire chiunque in ritardo rispetto agli altri, anche quando sta già dando il massimo.
Per contrastare questa fatica esistenziale, è nato il mercato del self-care: app di meditazione, corsi di crescita personale, ritiro di benessere. Tuttavia, anche il prendersi cura di sé è diventato un’industria che impone standard elevati. Il rischio? Trasformare il riposo in un altro obiettivo da raggiungere, invece che in un bisogno autentico.
Il primo passo per sfuggire a questa spirale è decostruire il mito della produttività a tutti i costi. Accettare che il valore di una persona non dipende solo da quanto produrre è fondamentale. Inoltre, parlare apertamente di salute mentale, mettere limiti chiari tra lavoro e vita privata e riscoprire il piacere delle piccole cose può aiutare a recuperare un equilibrio più sano. I Millennials sono una generazione resiliente, capace di adattarsi e reinventarsi. Forse la vera sfida è proprio questa: imparare a rallentare, senza sentirsi in colpa.
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