Un team di ricercatori, guidato da uno studente laureato del MIT, ha sviluppato un metodo per individuare i debolissimi segnali delle prime onde gravitazionali emesse dal nostro Universo, nei momenti immediatamente successivi al Big Bang.
Le onde gravitazionali primordiali, prodotte quasi 13,8 miliardi di anni fa, riecheggiano ancora oggi nell’Universo. Ma sono soffocati dal crepitio delle onde gravitazionali prodotte da eventi più recenti, come la collisione di buchi neri e stelle di neutroni.
I segnali gravitazionali primordiali sono infatti molto più deboli delle onde gravitazionali che vengono rilevate quasi quotidianamente dai nostri rilevatori che non sono così sensibili da riuscire a captarli. Ma grazie a questo studio, la prossima generazione di rilevatori potrebbe essere abbastanza sensibile da rilevare queste increspature primordiali dello spazio-tempo.
Sarebbe davvero una svolta per l’astrofisica in quanto il modello e le proprietà di queste onde primordiali potrebbero rivelare indizi sull’universo primordiale, come le condizioni che hanno guidato la sua espansione.
La caccia alle onde gravitazionali primordiali si è concentrata principalmente sul fondo cosmico a microonde, o CMB, che si pensa sia la radiazione che residua del Big Bang. Questa radiazione permea l’universo come energia più visibile nella banda delle microonde. I ricercatori credono che quando le onde gravitazionali primordiali si sono formate, abbiano lasciato un’impronta sulla CMB.
Ma questo nuovo studio si concentra invece sulla loro ricerca direttamente nei dati delle onde gravitazionali. L’idea generale è stata quella di provare a sottrarre il “primo piano astrofisico”, qualsiasi segnale di onda gravitazionale che proviene da una sorgente astrofisica, come buchi neri in collisione, stelle di neutroni e supernove che esplodono. Solo dopo aver sottratto questo primo piano astrofisico i fisici possono ottenere una stima dei segnali più silenziosi e non astrofisici che possono contenere onde primordiali.
Per questo nuovo approccio, i ricercatori si sono basati su un modello per descrivere le “conversazioni” più ovvie del primo piano astrofisico. Il team ha utilizzato questo modello per creare dati simulati di modelli di onde gravitazionali, di fonti astrofisiche sia forti che deboli come la fusione di buchi neri.
Il team ha quindi cercato di caratterizzare ogni segnale astrofisico in agguato in questi dati simulati. Una volta identificati questi modelli distinti e non casuali nei dati delle onde gravitazionali, quello che rimane sono i segnali di onde gravitazionali primordiali assieme al rumore di fondo dello strumento, specifico per ciascun rilevatore.
Per distinguere il segnale delle onde primordiali dal rumore di fondo dello strumento, i ricercatori hanno ipotizzato che le onde gravitazionali primordiali permeano l’universo come un ronzio diffuso e persistente, che avere lo stesso aspetto anche se rilevato con due strumenti diversi.
Al contrario invece, il rumore di fondo dello strumento, dovrebbe essere specifico per quel rilevatore e non correlato ad altri rilevatori. Confrontando quindi i dati in due rivelatori, dopo aver tenuto conto delle sorgenti astrofisiche dipendenti dal modello, è stato possibile individuare i parametri dello sfondo primordiale.
Questo nuovo metodo potrà essere applicato ai futuri rilevatori con maggiore sensibilità, per correlare e analizzare i dati da due diversi rilevatori, per cercare di individuare tracce del segnale primordiale.
Foto di WikiImages da Pixabay
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