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Per secoli si è creduto che l’umanità fosse suddivisibile in razze, ciascuna con caratteristiche fisiche e intellettuali specifiche. Ancora oggi, molti politici e opinioni pubbliche restano ancorati a quest’idea. Ma la scienza, da decenni, ha preso una direzione opposta: la razza non è una realtà biologica, ma un’invenzione umana.
Un’affermazione sostenuta anche dall’American Society of Human Genetics, secondo cui “la razza è un costrutto sociale”. Parole che contrastano con una recente ordinanza esecutiva firmata da Donald Trump, che criticava una mostra allo Smithsonian Museum proprio per aver diffuso questa visione.
All’inizio del Novecento, la classificazione razziale sembrava una missione scientifica legittima. Antropologi come William Ripley e Earnest Hooton cercavano di distinguere le razze umane in base a misure come la forma del cranio, il colore della pelle o la lunghezza del radio. Il risultato? Un caos metodologico e nessun consenso.
Persino Charles Darwin, nel 1871, osservava con frustrazione che diversi scienziati avevano identificato da 2 a 63 razze. Il motivo? Le differenze tra i gruppi erano troppo sottili e sfumate per permettere classificazioni oggettive.
Con l’avvento del nazismo, l’urgenza di contrastare pseudoscienze razziali spinse gli scienziati a un cambio di rotta. Tra gli anni ’30 e ’40, antropologi come Ruth Benedict e Gene Weltfish iniziarono a sostenere che le differenze tra i gruppi umani non erano biologiche, ma culturali. Tutti gli esseri umani sono capaci di apprendere, evolvere, contribuire allo sviluppo della civiltà.
In parallelo, la genetica delle popolazioni emerse come nuovo paradigma. Scienziati come Theodosius Dobzhansky dimostrarono che le popolazioni umane sono in continua evoluzione e mescolanza genetica: nessun gruppo umano è statico o omogeneo. Le razze, dunque, non sono utili né reali in termini biologici.
Oggi sappiamo che il 99,9% del DNA umano è identico in tutti gli esseri umani. Le differenze fisiche esistono, ma sono superficiali e non giustificano alcuna divisione razziale. Eppure, il concetto di razza continua a influenzare la politica, l’arte, l’identità.
La mostra dello Smithsonian, criticata dall’ex presidente Trump, racconta proprio questo: la razza come strumento culturale e politico, capace tanto di opprimere quanto di emancipare.
Come conclude lo storico John P. Jackson, “la razza non è una realtà della natura, ma una realtà sociale — e proprio per questo ha avuto, e continua ad avere, un enorme impatto”.
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