Il rugby viene spesso visto come un gioco particolarmente virtuoso dal punto di vista della cooperazione e del gioco di squadra, ma anche violento. Ovviamente si tratta di uno sport fisico, ma quando si guardano le partite si capisce che neanche così tanto. Detto questo la fisicità rimane un aspetto importante e con essa ci sono molti rischi. Un recente studio ha visto come per ogni anno giocato, i giocatori rischiano sempre più di sviluppare malattie degenerative al cervello.
Nello specifico si parla dell’Encefalopatia traumatica cronica, una patologia legata proprio alle continue contusioni al cervello la cui diagnosi può arrivare solo dopo la morte dell’individuo. Si parla di una malattia i cui sintomi sono una grave perdita di memoria, cambiamenti di umore, depressione e tutti quelli simili alle forme comuni di demenza. Un aspetto importante è che non è una malattia legata strettamente all’età perché anche i giovani sono a rischio.
Essendo una malattia diagnosticabile solo alla morte, gli studi possono avere sotto mano pochi dati. Nello studio hanno potuto studiare i cervelli di 31 ex giocatori di Rugby che hanno dotato l’organo alla scienza. Il 68% di questi mostrano i segni della malattia. Partendo da questi dati, e con altri studi, la tesi è che per ogni anno giocato costantemente c’è un aumento del rischio di sviluppare questa malattia del 14%.
Le parole dei ricercatori: “La CTE è una malattia prevenibile; c’è un urgente bisogno di ridurre non solo il numero di impatti alla testa, ma la forza di tali impatti, nel rugby così come negli altri sport di contatto, al fine di proteggere e prevenire la CTE in questi giocatori. Anche se questo studio ha dimostrato che alcune persone che giocavano a rugby amatoriale avevano patologie cerebrali, i dati più forti che collegano gli sport di contatto alla neurodegenerazione provengono ancora da giocatori professionisti o d’élite.”
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