Grazie ad uno studio sostenuto dall’iniziativa Brain Research Through Advancing Innovative Neurotechnologies (BRAIN) del National Institutes of Health degli Stati Uniti, un team di ricercatori è riuscito ad identificare due tipi di cellule cerebrali coinvolte nell’organizzazione di ricordi. Si tratta di uno studio molto importante, in quanto i risultati ottenuti migliorano la nostra conoscenza dei meccanismi di funzionamento del cervello umano e potrebbero essere utili nello studio di disturbi della memoria come l’Alzheimer.
Il progetto è stato realizzato grazie agli sforzi di un consorzio multiistituzionale attraverso il programma Research on Humans della NIH BRAIN Initiative. Le istituzioni coinvolte in questo studio erano il Cedars-Sinai Medical Center, il Children’s Hospital Boston e il Toronto Western Hospital. Oltre che dalla NIH BRAIN Initiative, lo studio è stato finanziato anche dalla National Science Foundation e da Brain Canada.
Jim Gnadt, Ph.D. e direttore del programma presso il National Institute of Neurological Disorders and Stroke e del NIH BRAIN Initiative ritiene che questo lavoro presenta un approccio del tutto nuovo al modo in cui studiare il funzionamento ed i meccanismi del cervello umano. Come egli stesso spiega infatti, in questa ricerca neuroscientifica è stato utilizzato “un approccio usato in precedenza nei primati e nei roditori, registrando direttamente dai neuroni che generano pensieri”.
Come riesce il nostro cervello a identificare i ricordi?
Nella loro ricerca gli scienziati, guidati da Ueli Rutishauser, Ph.D., professore di neurochirurgia, neurologia e scienze biomediche al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles , si sono chiesti come il nostro cervello procedesse per creare ed organizzare i ricordi. Si ritiene infatti che gli eventi della nostra vita siano memorizzati come momenti individuali e distinti. Ma come fa il cervello a decretare quali siano l’inizio e la fine di ogni singolo evento che diventa ricordo? Questa teoria viene definita “segmentazione degli eventi” e sappiamo relativamente poco su come questo processo avvenga e funzioni nel cervello umano.
Per cercare di risolvere questo mistero, Rutishauser e i suoi colleghi hanno condotto uno studio su 20 pazienti con epilessia farmacoresistente, i quali dovevano essere sottoposti ad un intervento chirurgico per il trattamento della loro malattia. Durante l’intervento e come guida per procedere con l’operazione, i pazienti sono stati sottoposti a registrazione intracranica dell’attività cerebrale.
I ricordi hanno dei “confini”
Durante le registrazioni, ai pazienti sono stati mostrati dei filmati contenenti diversi tipi di “confini cognitivi” ovvero delle transizioni che si ritiene siano in grado di provocare dei cambiamenti nel modo in cui il cervello memorizza i ricordi e decreta l’inizio e la fine di un ricordo.
Sostanzialmente si trattava di due tipi di confini cognitivi: il “confine morbido” in cui una scena si interrompe con un altra scienza che continua la narrazione della stessa storia; ed un “confine rigido” in cui la narrazione di un evento è interrotta dalla narrazione di un altro evento completamente diverso.
Mentre i filmati venivano mostrati ai pazienti, il team ha preso nota delle risposte dell’attività cerebrale alla visione dei filmati, notando la risposta di due distinti gruppi di cellule, tramite un aumento della loro attività, ai diversi tipi di confini. Un gruppo di cellule, denominate “cellule di confine” ha aumentato la sua attività sia in risposta a un confine morbido che a uno rigido rigido. Mentre un secondo gruppo di cellule, denominato “cellule degli eventi”, ha risposto solo ai confini rigidi.
Queste osservazioni hanno portato i ricercatori ad ipotizzare che la creazione di una nuova memoria, ovvero di un nuovo ricordo, si ha quando vi sono picchi di attività sia delle cellule di confine che di quelle degli eventi, una condizione presente solo quando il soggetto si trova in presenza di un confine rigido. Quindi in presenza di un confine rigido si crea un nuovo evento, mentre i confini morbidi aggiungono particolari allo stesso evento, che verrà poi chiuso dal presentarsi di un nuovo confine rigido.
Ecco come il cervello riesce a trovare un ricordo nel suo “magazzino”
Partendo da queste basi, i ricercatori hanno proseguito il loro studio per cercare di comprendere come il cervello fosse in grado di richiamare alla memoria i ricordi immagazzinati e il modo in cui questo processo si collega all’attivazione delle cellule di confine e degli eventi. Il team di ricerca ha ipotizzato che il cervello utilizzi i picchi di confine come indicatori per cercare tra i ricordi passati. Quando il cervello trova dunque uno schema di accensione che sembra familiare a quello che sta cercando, allora “apre” quell’evento.
Per dimostrare questa teoria ai partecipanti è stata mostrata una serie di immagini fisse e gli è stato chiesto di stabilire se si trattava di immagini presenti nei filmati che avevano appena visto. I ricercatori hanno notato che i partecipanti avevano maggiori probabilità di ricordare le immagini viste subito dopo un confine rigido o morbido, ovvero quando il loro cervello ha creato una nuovo “evento”.
Inoltre ai partecipanti allo studio sono state mostrate coppie di immagini tratte dai filmati che avevano appena visto e gli è stato chiesto quale delle due immagini fosse apparsa per prima nel filmato. Il team ha scoperto con questo ulteriore test che si presentavano maggiori difficoltà nel collocare temporalmente le due immagini se queste si trovavano su lati diversi di un confine rigido, forse perché erano stati collocati in “eventi”, dunque ricordi, diversi.
I risultati di questa ricerca dunque, ci danno nuove informazioni sul modo in cui il cervello umano crea, immagazzina e recupera i ricordi. Inoltre, visto che questa creazione e divisione degli eventi è un processo che può essere influenzato nelle persone con disturbi della memoria, queste intuizioni potrebbero essere applicate allo sviluppo di nuove terapie per questa categoria di disturbi neurologici.
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