Sin quasi dall’inizio della pandemia di Covid-19, si è iniziato ad ipotizzare che la vitamina D potesse essere correlata con un certo sviluppo della malattia o che addirittura potesse proteggerci dal contrarre l’infezione.
Sappiamo che una delle funzioni di questo importante pro-ormone è quella di contribuire a mantenere un sistema immunitario ben funzionante. I ricercatori hanno dunque dato il via a diversi studi per cercare di capire se vi fosse un possibile ruolo per la vitamina D nel combattere o contrastare la Covid-19.
Una prima base per questo tipo di ricerche può essere la meta-analisi condotta nel 2017 in cui sono stati esaminati 25 studi randomizzati controllati che hanno coinvolto circa 11.000 persone. Dai risultati di questa analisi i ricercatori hanno concluso che la somministrazione giornaliera o settimanale di integratori di vitamina D riduce il rischio di infezioni respiratorie acute, con una maggiore evidenza, come era prevedibile, su coloro che all’inizio dello studio presentavano una grave carenza di vitamina D.
La meta-analisi in questione è stata condotto da Adrian Martineau della Queen Mary University di Londra, e proprio quest’anno lo stesso Matineau l’ha aggiornata, aggiungendovi i dati di un totale di 46 studi, con un totale di oltre 75.500 partecipanti.
Con questa implementazione, il team di Martineau ha confermato la precedente scoperta, ma ha stabilito che l’impatto degli integratori di vitamina D sulla Covid-19 sembra essere piuttosto limitato.
Questi dati, che pongono in relazione la vitamina D ed una minore incidenza di sviluppo di casi gravi di Covid-19, collima anche con i dati epidemiologici. Sin dai primi dati sui contagi l’incidenza dei contagi ha suggerito che la vitamina D potrebbe essere utile contro l’infezione.
Si è infatti notato che tutte le persone di età superiore ai 65 anni e le persone di colore, che hanno maggiori probabilità di avere livelli più bassi di vitamina D, presentavano un rischio maggiore di sviluppare casi più gravi, o addirittura letali di Covid-19. Va comunque specificato che, in molti casi, le ragioni di una maggiore vulnerabilità sono molteplici.
Ovviamente l’insieme di questi dati non è di certo conclusivo, ma possono essere un buon punto di partenza per ulteriori studi, uno dei quali è stato condotto in Australia dalla ricercatrice sul cancro Rachel Neale del QIMR Berghofer Medical Research Institute.
Neale ha condotto un imponente studio randomizzato controllato, l’D-Health Trial, della durata di cinque anni basato sull’integrazione di vitamina D in 21.315 anziani. Ha confrontato alte dosi mensili della vitamina (60.000 unità internazionali) con un placebo e ha esaminato un’ampia gamma di risultati, tra cui l’infezione acuta del tratto respiratorio. Questo studio ha dimostrato che la vitamina D non riduce il rischio di infezione acuta del tratto respiratorio ma può ridurre leggermente la durata dei sintomi.
David Meltzer, economista della salute e professore di medicina all’Università di Chicago ha iniziato a condurre ricerche sulla vitamina D proprio all’inizio della pandemia, concentrandosi sulla popolazione settentrionale degli Stati Uniti.
Come afferma lo stesso Meltzer: “Abbiamo avuto molte persone sottoposte a test per la Covid-19 nel nostro ospedale e avevamo dati storici da questi individui, quindi abbiamo incrociato i test positivi e i dati sulla vitamina D registrati”.
Analizzando dunque i dati relativi ad una popolazione eterogenea di 4.638 persone Meltzer e i suoi colleghi hanno scoperto che il rischio di contrarre l’infezione da Sars-CoV-2 era 2,64 volte maggiore per gli individui neri con bassi livelli di vitamina D rispetto a quelli con livelli più alti. Non si è notata invece alcuna correlazione significativa nei pazienti bianchi.
Come spiega Meltzer: “Chicago ha inverni lunghi e le persone con la pelle più scura producono meno vitamina D. La nostra posizione settentrionale e la predominanza di persone di colore che frequentano l’ospedale ci hanno permesso di individuare il collegamento“.
Sino ad ora comunque non si è giunti ad una correlazione definitiva e chiara tra la Vitamina D e l’infezione da Sars-CoV-2. La mancanza di una risposta chiara potrebbe riflettere i limiti nella progettazione degli studi, comprese le popolazioni non carenti di vitamina D, le dimensioni del campione troppo piccole o le incongruenze nelle dosi o nei metodi di misurazione. Ma nuovi studi sono in atto ed i loro risultati possono aiutare a fare chiarezza.
In particolare vi sono due nuovi studi in atto, il CORONAVIT nel Regno Unito ed il CoVitTrial in Francia. Il primo dei due si svolge su un campione di 6.200 partecipanti, ed esamina se sia efficace correggere la carenza di vitamina D durante l’inverno con una dose standard o alta della vitamina, per ridurre il rischio o la gravità della Covid-19 e di altre infezioni respiratorie acute.
Lo studio francese CoVitTrial, di dimensioni più contenute, sta valutando invece l’impatto di una singola dose elevata o di routine di vitamina D sugli anziani ad alto rischio di contrare la Covid-19. Per entrambi gli studi si dovrebbero avere i primi risultati entro la fine dell’anno.
Anche lo stesso Meltzer sta conducendo tre nuovi studi sull’integrazione di vitamina D in popolazioni con etnia mista: un’indagine su pazienti con cartelle cliniche complesse, una su operatori sanitari e la terza su base comunitaria. Questi studi serviranno por valutare l’impatto di vari dosaggi della vitamina sui sintomi e sugli anticorpi della Covid-19, così come sui sintomi di altre malattie respiratorie, più o meno gravi.
Foto di Miguel Á. Padriñán da Pixabay
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