Come tutti gli organi del nostro corpo, anche il cervello non è esente da invecchiamento, processo che porta alla costante degenerazione delle connessioni interneuronali con conseguente perdita di capacità cognitive prima tra tutte la memoria. Questo processo è un passo purtroppo obbligato nella vita di ogni persona, sembra però che gli scienziati abbiano trovato un’interruttore per invertire tale processo sfruttando la plasticità neuronale, capacità unica dei neuroni che consiste all’adattarsi, tramite la creazione di nuove connessioni e il riarrangiamento di quelle già presenti, a determinati stimoli.
Un processo elettrico alla base di tutto.
Il Dott. Reinhart, neuroscienziato dell’Università di Boston, spiega che il lavoro si è incentrato su una parte della cognizione chiamato memoria di lavoro, fondamentale per un’ampia varietà di compiti, come riconoscere i volti, eseguire operazioni aritmetiche e navigare in un nuovo ambiente.
La memoria di lavoro è particolarmente sensibile ad invecchiamento e il suo deterioramento è causato da una desincronizzazione elettrica nelle due regioni temporali e frontali che ne causa il declino progressivo poiché ne riduce le capacità di interscambio di informazioni danneggiando le connessioni a distanza tra i neuroni della sostanza grigia.
L’intervento degli scienziati
Gli scienziati hanno così deciso di fare un confronto tra 42 persone di età compresa tra i 20 e 29 anni e altre 42 persone con età compresa tra 60 e 76 anni. Il gruppo più vecchio era più lento e meno accurato nei test, perciò l’equipe ha deciso di sottoporli a stimolazione elettrica non invasiva mirando a sincronizzare le aree del cervello citate pocanzi, ciò ha prodotto un notevole miglioramento delle prestazioni cognitive nel gruppo più anziano dei soggetti, con un risultato maggiormente positivo nei soggetti con la più critica situazione di partenza.
Il commento degli esperti
“Stiamo vedendo i più grandi miglioramenti nelle persone con i maggiori deficit al basale e questo è sicuramente un ottimo auspicio per il lavoro clinico nei pazienti con disturbi cognitivi“, ha detto Reinhart.
Non è tutto oro ciò che luccica, però. Infatti, Robert Howard, professore di psichiatria della vecchiaia presso l’University College di Londra, ammonisce che i miglioramenti riscontrati possono avere un costo, asserendo che i risultati devono essere replicati in condizioni cliniche di prova, con un numero maggiore di partecipanti e con un accecamento accanito di soggetti e valutatori del risultato, inoltre vanno poi ponderati e analizzati possibili effetti collaterali del trattamento che potrebbe sfociare nel peggioramento di altre aree della corteccia.
In definitiva si tratta di una scoperta con un grande potenziale ma che va attentamente studiata varando ogni pro e contro, in modo tale da sfruttarne ogni possibile capacità terapeutica nella cura delle patologie che maggiormente attanagliano i pazienti nella fascia di età più avanzata, prima fra tutte l’Alzheimer, per migliorarne la qualità della vita.