Come ormai sappiamo, online ricorrono alcune note ingiurie per colpire politici, giornalisti e normali utenti. Eppure, secondo l’analisi svolta da DataMediaHub e KPI6, che ha analizzato le conversazioni su Twitter dal 25 aprile al 17 giugno scorso, il fenomeno dell’hate speech va ben inquadrato poiché appare ben circoscritto e limitato rispetto a quanto il tema lasci apparire.
È la ragione per cui sempre più spesso i social network richiedono un documento identificativo per iscriversi. Per questo Trump ha minacciato di cancellare la norma che permette ai social network di non essere considerati responsabili di ciò che i loro utenti pubblicano. In discussione non è la gravità o pericolosità del fatti, ma la percezione che spesso se ne ha.
Secondo l’indagine Report sull’Hate Speech in Italia, su Twitter, invece la realtà sarebbe diversa, a giudicare dai numeri; complessivamente nel periodo indicato sono stati identificati 679mila tweet ascrivibili all’hate speech. Sono il 3,7 per cento dei tweet postati a utilizzare insulti che rimandano a una delle sette categorie precedentemente individuate, come sessismo, omofobia e razzismo.
La scelta di utilizzare alcuni epiteti ci rivela alcune dinamiche, ma non si possono mettere sullo stesso piano tutte le tipologie dei temi dell’hate speech, come fossero una sola grande bolla di odio e intolleranza. Gli insulti generici e ideologie politiche trainano le espressione deteriori in rete.
Decisamente marginali appaiono invece razzismo, discriminazione territoriale, antisemitismo. Incidono di più il sessismo e l’omofobia ma con percentuali comunque più basse (7,72% e 1,93%) rispetto alla grande massa di insulti generici (62,18% e insulti politici 25,43%).
La panoramica offerta dall’indagine rivela altre cose. Gran parte di quelli che insultano sono maschi, con un’età compresa tra 25 e 44 anni; spesso sono nascosti dietro altre identità. Nel 4,8% dei casi nelle bio degli hater appare la parola Italia che a volte si associa con sinonimi di concetto come tradizioni, bandiera, fiero. insomma, in molti casi sono i cosiddetti bandierini, che in molti casi danno fiato ad adesioni identitarie che sentono frustrate.
Ad infiammare gli animi, e quindi le conversazioni, sono anzitutto le tematiche relative a legge, governo, politica, ma anche le news e lo sport. Gli insulti colpiscono politici di tutti gli schieramenti, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, da Matteo Renzi a Carlo Calenda. E naturalmente non mancano le donne, da Giorgia Meloni a Teresa Bellanova. La leader di Fdi ad esempio vede fioccare da più parti insulti legati all’area dell’ideologia politica, ma minori sono quelli di marca apertamente sessista.
L’analisi di DataMediaHub e KPI6 deduce che il volume totale dei discorsi d’odio risulterebbe più contenuto se si valutassero alcuni epiteti per quello che sono; linguaggio di bassa lega ma ormai sdoganato nel quotidiano o rilancio di eterne contrapposizioni politiche che la fine delle ideologie hanno finito per annacquare ma non online a quanto pare.
È chiaro che i dati si riferiscono a una sola piattaforma e un dato lasso temporale, tra l’altro in un intervallo storico più unico che raro; alcuni eventi, anche in programma nei prossimi mesi, dal voto italiano delle regionali alle presidenziali statunitensi, potrebbero teoricamente riaccendere gli animi e far aumentare i volumi.
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