Un gruppo di quattordici donne, tra scienziate e attiviste, sta eseguendo delle ricerche sulla plastica che inquina e copre vaste aree degli oceani. Le ragazze stanno effettuando questa ricerca a bordo di un imbarcazione a vela di 22 metri, la Sea Dragon, costruita in Inghilterra nel 2000, nell’ambito di un progetto chiamato eXXpedition.
La Sea Dragon è partita dalle Hawaii a metà giugno, e ha attraversato una parte del vortice del Pacifico settentrionale noto come “Great Pacific Garbage Patch”, una turbolenta massa di acque oceaniche interamente coperta di spazzatura, grande due volte lo stato del Texas. È composta da grandi isole di rifiuti che si scontrano e si fondono l’una con l’altra.
Attualmente la Sea Dragon, si trova nel porto di Victoria, nella British Columbia in Canada. Il team è qui impegnato nella raccolta di campioni di sabbia fangosa, dai fondali all’interno del porto. Questi campioni si aggiungeranno ai già molti raccolti dalle ragazze, tra acqua, aria e sabbia, in tutto il Pacifico settentrionale. I campioni saranno poi spediti a Plymouth, in Inghilterra, per essere analizzati da Imogen Napper, scienziato della eXXpedition.
Emily Penn, fondatrice del progetto eXXpedition, ha affermato che l‘oceano è ormai un immenso “brodo di plastica”, con trilioni di pezzi di plastica, più o meno piccoli, che coprono una superficie di un milione e mezzo di chilometri quadrati.
Penn è rimasta scioccata dalla navigazione con la Sea Dragon, osservando un pezzo di plastica od un oggetto, galleggiare sulla superficie dell’acqua accanto alla barca, prima ogni 10 secondi, per poi diventare sempre più frequenti, man mano che proseguivano verso le isole di plastica galleggianti. Pezzi di plastica e spazzatura, fermi nell’Oceano, che dopo una settimana sono ancora li e continuano il loro cammino nella corrente, a più di 800 miglia dalla costa e dall’uomo.
Quello che cercano quindi di fare queste donne è cercare di quantificare e conoscere questa inesorabilità. Un problema globale, che non si limita al Pacifico settentrionale, ma riguarda tutti gli oceani ed i mari del mondo. Per questo i campioni raccolti dalle ragazze, su acqua, aria e sabbia, saranno analizzati in laboratori di tutto il mondo.
Questi campioni ci aiuteranno a capire come la plastica possa raccogliere altri inquinanti, come pesticidi e rifiuti industriali, e trasferirli agli esseri umani attraverso la catena alimentare. Giunti all’essere umano infatti, potrebbero avere conseguenze gravi sulla salute. Le sostanze chimiche rilasciate dalle materie plastiche sono associati a molte patologie, dal cancro, allo sviluppo incompleto dei genitali e all’obesità. Ad esempio è noto che il bisfenolo A, rilasciato nelle bevande e negli alimenti contenuti nella plastica, è stato collegato al cancro al seno e alla prostata.
La plastica è inoltre vettore di sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino (EDC), interferendo quindi con la normale funzione degli ormoni nel corpo umano. Alcuni possono anche passare dal corpo di una donna incinta al suo feto, interferendo potenzialmente nello sviluppo del bambino.
Proprio quest’ultima allarmante possibilità ha spinto la Penn a creare l’eXXpedition: “per le donne, mi sembrava che avesse un significato più grande, perché rischiamo di trasmetterlo alla generazione successiva”.
Il primo studio scientifico degli effetti sul sistema endocrino dei composti plastici, risale al 1991, ed è opera della biologa e medico Ana Soto. In particolare, si concentrò sugli effetti delle sostanze chimiche, prodotte dalla plastica, sullo sviluppo sessuale. Identificò un composto, il nonifenolo, prodotto da di alcune plastiche, che nel corpo umano veniva percepito come estrogeno. In questo modo il nonifenolo, interferiva con l’attività ormonale, portando a profondi cambiamenti sopratutto nello sviluppo.
Questa ricerca ha iniziato a far crescere i sospetti che anche altre sostanze, prodotte dalla plastica, potessero agire allo stesso modo. In studi successivi è stato dimostrato che l’esposizione agli EDC in fase prenatale, può portare a molti disturbi ed in a,cuni animali ha portato ad una maggiore incidenza di cancro e altri disturbi. Gli EDC, imitando gli ormoni del nostro corpo, aumentano infatti il rischio di tumore.
Secondo la Endocrine Society esiste una “possibilità che l’esposizione ambientale a basso livello possa avere un impatto biologico significativo e/o a lungo termine”. Si stima che oltre 1.000 derivati dalla plastica, siano sospettati di interferire con la normale funzione ormonale.
Esistendo però ormai innumerevoli tipi di plastiche diversi, risulterebbe quasi impossibile per gli scienziati eseguire dei test su tutti i possibili composti dannosi. Ecco perché Emily Penn crede che il progetto eXXpedition e la Sea Dragon, possano essere di aiuto, costruendo conoscenze sulla plastica nell’oceano e far sì che le persone si preoccupino del problema. Lei ed il suo equipaggio possono cominciare a dare l’allarme su l’immane quantità di plastica nei nostri mari e oceani, che cosa c’è dentro e sopra queste enormi isole di plastica e quale impatto potrebbe avere sull’ambiente.
Tra gli innumerevoli campioni raccolti dalla Sea Dragon ci sono anche campioni di aria oceanica. La plastica si trova infatti anche nell’aria. Questi campioni saranno analizzati da Stephanie Wright, ricercatrice del King’s College di Londra che studia se le microfibre di plastica “in volo” nell’aria, rappresentino un rischio per i polmoni e le vie respiratorie nell’uomo. La stragrande maggioranza di queste fibre viene da tessuti sintetici plastici, come il pile per capirci.
Le fibre e le microparticelle che inducono disordini nel sistema endocrino umano, possono persistere per millenni, attraversare i tessuti e introdursi negli organi umani. Sostanze tossiche a stretto contatto con i nostri organi. Finiamo infatti per respirarle ed ingerirle mangiando molluschi e pesci che a loro volta hanno ingerito plastiche di dimensioni nell’ordine dei µm.
Oltre a rilasciare sostanze chimiche che interferiscono con il sistema endocrino, la plastica può agire da magnete per gli inquinanti organici come il DDT. Le materie plastiche possono concentrare questi contaminanti fino a 100.000 volte. Potrebbero essere quindi i vettori per trasportare quel contaminante nella catena alimentare. Da un po ‘di plancton che ne ingerisce una piccola quantità, ad un pesce, e, proseguendo lungo la catena alimentare, all’uomo.
Non è possibile o per lo meno non lo è al momento, pensare di eliminare tutta la plastica dall’oceano e dai mari, ma bisognerebbe almeno smettere di produrne in così grandi quantità. Non dovremmo puntare sull’innovazione delle materie plastiche, ogni giorno nuovi materiali sintetici sono approvati per il rilascio sul mercato senza troppe analisi sul loro impatto sulla salute o sull’ambiente. Dovremmo cercare di smettere di produrre così tanti rifiuti.
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