Quanti videogame trattano di criminalità, forse centinaia o addirittura migliaia? In quanti abbiamo acciuffato malintenzionati o, all’opposto, abbiamo impersonato arditi criminali? Decine. Ma quanti, tra tutti questi, in un’ottica non solo grafico-tecnica e di gameplay risultano portanti e importanti nell’esatta descrizione e decrittazione dell’immaginario mafioso? Uno.
Uno. Proprio uno, nemmeno riferendosi a un singolo brand, ma esattamente a un solo videogame: Mafia.
Di questo e molto più è quanto riflettuto in sessantadue pagine nel capitolo La mafia nel nuovo medium: il videogame del saggio Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente di Luca Federici in cui, dopo un excursus storico-cronachistico sulla nascita, la crescita, l’evoluzione e la trasformazione di Cosa nostra nel nostro Paese e nel mondo, da giurista ed esperto di comunicazione, tratta prima di considerazioni letterarie per poi approfondire la terna educazione-mafia-videogioco.
Perché il videogame può e, se vuole, deve poter essere qualcosa di diverso, come direbbe l’Autore: qualcosa di alt(r)o della già incredibile missione intrattenente. Perché il primo Mafia, assistito da una narrazione magniloquente, può scaturire quella curiosità e quel precipitato conoscitivo in grado di avvicinare correttamente i più giovani (PEGI: +18) rispetto campi, conoscenze e saperi molti seri e importanti per una società… Consapevole.
Da quest’ottica, e rispondendo a domande quali «Può fare specie (video)giocare a un videogame sulla mafia, di mafia, immergendosi nella mafia?» e «Può un videogioco veramente narrare e descrivere le infinite sfaccettature della mafia?» lo scrittore avanza quesiti «for the players» dandosi ovviamente risposte ma che, essendo etiche e non morali, non chiudono definitivamente la questione perché ricadenti sulla collettività, per non dire generalità. Per cosa? Innanzi tutto, per la maturazione della community giocante, perché sono questioni che, così come presentate in passato torneranno anche al netto di polemiche su Mafia City e chissà, proprio con l’uscita autunnale di Mafia: Definitive Edition.
Perché l’industria si è mostrata pronta ad avanzare opere culturalmente pantagrueliche come The Last of Us: Parte II (2020) o, appunto, ante litteram come Mafia: The City of Lost Heaven (2002) ma altrettanto non allineato potrebbe essere il “popolo giocante”. Perché se vogliamo avanzare il livello in cui il medium è percepito, dobbiamo imparare a parlare anche un alfabeto distinto, per un uditorio diverso, persino accademico e istituzionalizzato. Perché, forse, se di videogiochi si tratta nei media generalisti più per le di loro storture (che, si badi, ci sono) anziché delle loro potenzialità quale decima arte (che come gamer ben sappiamo), è perché sta a noi la doverosità di emanciparci. Di trasformare la subalternità di come ci raccontano, in rivendicazione di come ci raccontiamo. Come? Attraverso la forza della cultura, quella appunto che può veicolare anche un videogioco, precisamente come già successo con Valiant Hearts: The Great War presso le accademie internazionali e con This War of Mine, addirittura entrato nella lista delle letture consigliate per gli studenti maggiorenni delle scuole polacche a partire dall’imminente anno scolastico 2020/2021.
Ed è così che, a ritroso, lo scrittore opera un’analisi frame by frame della saga Mafia ove si sofferma su ogni aspetto comunicazionale (narrativo, visivo, metalinguistico, storico-ricostruttivo, etc.) di realtà o verosimiglianza tra quanto videogiocato e quanto sussistente al di là del divertimento, per un vero apprendimento sull’ambiente mafioso: passando dalle figure ecclesiastiche (Padre James Ballard del III gioco) o egregie raffigurazioni di realtà bestiali come lo scenario decadente delle carceri in cui il reo piuttosto che essere rieducato al civismo si imbruttisce ancora di più fino a trasformarsi in un mostro (come in Mafia II), per poi ascendere in un climax poderoso nell’apoteosi del capostipite in cui, gemma più unica che rara nel medium, viene finemente descritta la figura paradigmatica del colletto bianco, del borghese, del professionista e dell’ingranaggio fondamentale della mafia rispetto qualsiasi altra forma di criminalità organizzata qual è il collegamento con il Potere legale raffigurato da Frank Colletti; il tutto racchiuso all’interno dell’apicale tragedia italo-statunitense di Thomas Angelo.
La palese ambizione dell’eclettico letterato non è qui solo quella di parlare ai videogiocatori di mafia o di videogiochi nelle scuole, bensì quella di impiegare la decima arte, quella dei videogiochi, proprio nelle istituzioni scolastiche per parlare con le stesse metriche dei neomaggiorenni al fine di interessarli su di un argomento oggi sopito e proprio per questo rilevante, qual è la conoscenza della complessità mafiosa attraverso la semplicità e non il semplicismo della cultura videoludica.
Vi lasciamo pertanto con un estratto della penna commentata: attenzione, contenente spoiler sulla trama di Mafia III.
Il terzo episodio della serie non presenta numericamente tanti elementi di collegamento con le dinamiche precipuamente mafiose ma, a stupire, è il loro peso specifico qualitativo.
Il primo è la plateale eliminazione del luogotenente di Marcano, Ritchie Douchet, a opera del giocatore ove il cadavere verrà esposto alla pubblica piazza nientemeno che innalzato, impiccato, nella ruota panoramica cittadina. Al di là della spiegazione operata dal videogioco quale tattica appresa sulla guerra psicologica in Vietnam dal Clay, l’omicidio eclatante, scenografico e pubblicitariamente manifesto è una vera e propria forma di comunicazione della criminalità organizzata. I massimi esponenti sono indiscutibilmente i narcos messicani: con distese di ponti brulicanti di corpi sventrati e di praterie impalate con teste mozzate […]. Anche la mafia, specificatamente Cosa nostra, quando non vuole semplicemente eliminare fisicamente qualcuno, ha delle forme di significazione ben precise. Una di queste, quasi in figura retorica ossimorica, prevede all’opposto dell’esibizione, proprio la sparizione definitiva, totale e perenne del corpo della vittima. È il cosiddetto metodo della lupara bianca.
Sulla falsariga di quell’atto brutal-pubblicitario, a metà campagna, Clay sventra il business man e dandy Lou Marcano, fratello maggiore del grande boss, cospargendo il corpo sul monumento urbano dedicato al presidente statunitense Andrew Jackson. Qui il messaggio non sarà esclusivamente “criminale-to-criminale” ma eminentemente politico. Lo statista, infatti, deportò forzosamente intere nazioni nativo-americane dalle loro terre originarie, rappresentando quindi un importante bersaglio anche per la questione etnico-raziale-sociale cittadina. Se nel gioco emerge il connotato delle minoranze, mutatis mutandis, si dica che la mafia, quella vera, fa sempre politica: a ogni livello. Locale, provinciale, regionale, nazionale ed europeo. Non ne può fare a meno, perché “vive” nella società e l’uomo essendo un animale sociale nonché Cosa nostra organizzata in gerarchie, ecco che l’una non può prescindere dall’altra.
È ormai unanime infatti l’annoverare taluni avvenimenti della nostra Storia, come veri e propri messaggi provenuti dal mondo mafioso a quello partitico-politico-istituzionale: come l’omicidio dell’europarlamentare siciliano Salvo Lima nel 1992 subito dopo le plurisecolari condanne definitive piovute all’esito del maxi-processo, con egli quale ritenuto esponente di raccordo mafia-politica incapace di garantire l’assoluzione degli imputati e ucciso, per questo, nel non aver mantenuto i “patti” (voti-immunità).
Il secondo è quando padre James chiude una scena filmata dicendo «Nessuno sa che ho aiutato Lincoln, a parte voi [i giocatori, che lo scoprono con una comunicazione documentarista diegetica] e John Donovan: non che volessi tenerlo segreto, è solo che non è venuto nessuno a fare domande». Questo virgolettato è grandioso, tanto da chiedersi come sia venuto fuori, perché dalle risultanze degli ultimi atti, avvenimenti e sviluppi dei più importanti processi di mafia al mondo sono sfilati nelle Procure e poi nei Corti di giustizia italiane, una sequela di altissime figure delle Forze dell’Ordine, politiche, istituzionali, imprenditoriali e mafiose confessanti o dichiaranti segreti o comunque notizie “indicibili” e prima mai appunto rivelate e, si indovini, proprio adducendo come “scusa” sull’inusitato ritardo, quel fatidico «Non è venuto nessuno a farmi queste domande».
A che tipologia di processi in particolare ci si sta riferendo? Tra i più importanti della storia d’Italia, ossia alla cosiddetta trattativa Stato-mafia dei primi anni Novanta dello scorso secolo e dei depistaggi consecutivi a una delle mattanze più sconvolgenti di Cosa nostra, la strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992 in cui ebbero a morire 5 agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e il bersaglio designato, il magistrato Paolo Borsellino.