In questi giorni sull’American Journal of Archaeology è stato pubblicato uno studio svolto sulle strade della Pompei romana, dove si è scoperto che anche ai tempi dell’Impero romano le strade… si rattoppavano, proprio come si fa oggi.
Ma andiamo per gradi e già che ci siamo approfondiamo l’alta ingegneria delle infrastrutture di duemila anni fa. Già Plinio il Vecchio (che nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ci morì) scriveva che i romani sapevano fare tre cose assolutamente meglio dei greci: costruire acquedotti, una efficiente rete fognaria e le strade.
Un impero così vasto non poteva vivere e prosperare senza quell’apparato cardiovascolare, il cui cuore era appunto Roma, che pulsando pompava quella linfa vitale di uomini, merci e soldati, attraverso più di 250 mila chilometri di vie. Si stima che più 150 mila di questi chilometri fossero in terra battuta (magari le vie secondarie e periferiche), ma i tratti principali, che attraversavano le città importanti e dove c’era un consistente traffico di carri, erano lastricate.
Doverosamente specifichiamo che non erano semplicemente pavimentate con lastre di pietra dura, come la selce o il vulcanico basalto (il basolato appunto), ma si creava una stratificazione di diversi materiali e consistenze. Questi strati (e da qui la parola strada, ma pure l’inglese street e la tedesca strasse) consistevano in un livello più in profondità di sassi e argilla; un secondo di pietre, laterizio frantumato e sabbia tutto impastato con la calce (opus caementicium) e un terzo di ghiaia e pietrisco, che fungevano da “asfalto drenante” ante litteram. Sopra a tutto ciò c’era la pavimentazione vera e propria, una scorza durissima che doveva resistere alle calighe dei soldati legionari che vi marciavano sopra, ai cavalli e altri animali da soma e ovviamente ai carri.
A noi potrà sembrare strano, ma il traffico nelle grandi città era insostenibile già allora, pensiamo che già nel 45 a.C. Giulio Cesare dovette promulgare una legge che vietava la circolazione dei carri, entro le mura di Roma, dall’alba fino al tramonto.
Chi ha vistato parchi archeologici di antiche città come Pompei o Ostia Antica avrà notato come sulle strade basolate vi siano dei profondi solchi, quando li vidi io la prima volta, pensai al sunnominato traffico e credetti fossero appunto frutto dell’erosione degli innumerevoli carri che circolavano, poi seppi che invece erano una sorta di binari volutamente scavati per creare un percorso obbligato ai carri e pure impedire che si rovesciassero. (Sembrerebbe che anche il termine sgarrare derivi da lì, appunto alludendo a quando i carri uscivano da questo tracciato; per i lettori napoletani aggiungiamo pure il loro “ingarrare”, cioè imboccare la via giusta).
Come già detto, i carri non avranno scavato i solchi in questione, ma comunque provocavano fratture, crepe e le famigerate buche che tutt’oggi attanagliano gli utenti che percorrono le antiche e moderne strade romane. Beh, questi archeologi della University of Massachusetts hanno scoperto che pure a Pompei, nel primo secolo dopo Cristo, si rattoppavano le strade.
E’ chiaro che anche allora, una ripavimentazione più accurata avrebbe bloccato la città per mesi e perciò si procedeva ad una soluzione più rapida: un po’ come quando oggi si cosparge un po’ di asfalto a freddo. Ma la scoperta interessante è che queste toppe venivano effettuate con ferro fuso e frammenti di pietra o terracotta che potessero dare pure un minimo di elasticità alla riparazione.
Una tecnica simile è stata utilizzata in una meraviglia ingegneristica dello stesso secolo: il Colosseo. Qui per bloccare ed assestare i perni di ferro (ma pure quelli in marmo) che servivano da giunzione tra pilastri, colonne e rivestimenti marmorei, si colava del piombo fuso negli spazi rimasti vuoti intorno ai perni. Per questo motivo l’Anfiteatro Flavio è pieno di buchi, poiché nel medioevo per estrarre e poter riutilizzare quel ferro, si dovette scavare a fondo, in maniera grossolana e piuttosto maldestramente, vista l’efficacia e la tenuta di questo ingegnoso sistema di fissaggio.
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