Metalli pesanti e cocktail di sostanze chimiche pericolose continuano ad avvelenare i mari europei, con oltre tre quarti delle aree esaminate che mostrano tracce di contaminazione, secondo un recente studio. Il mare più colpito è il Baltico, dove il 96% delle aree valutate mostrava livelli preoccupanti di sostanze nocive, secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente.
Altre tracce di queste sostanze sono state riscontrate nel 91% del Mar Nero e nell’87% del Mediterraneo. Nell’Atlantico nord-orientale sono stati rilevati livelli pericolosi di sostanze chimiche e metalli nel 75% delle zone di mare esaminate. Tuttavia, i ricercatori sostengono che la situazione sia in miglioramento, poiché molte delle sostanze tossiche rinvenute (come il DDT antiparassitario e metalli pesanti come cadmio e mercurio) sono ora soggette a divieti e severe restrizioni.
L’aumento di popolazione delle aquile di mare che vivono nella zona, ad esempio, è con ogni probabilità da imputare al calo del DDT nelle acque del mar Baltico. Il problema persiste invece per quanto riguarda i prodotti chimici “ritardanti di fiamma“, che sono ancora utilizzati e ancora presenti nei corsi d’acqua. L’Agenzia ha chiesto maggiori controlli sul modo in cui vengono utilizzati i prodotti chimici e un più attento monitoraggio della salute della fauna e della flora marina. Oltre ai danni alla salute umana, le tossine presenti nei mari europei colpiscono infatti soprattutto gli animali marini.
Johnny Reker, autore principale del rapporto dell’AEA, ha sottolineato l’importanza di restare vigili circa i potenziali nuovi contaminanti, così come rispetto a quelli già in uso. “Ogni due minuti e mezzo viene creata una nuova sostanza chimica e non ne conosciamo gli effetti“, ha affermato. “Arrivano sempre nuovi prodotti, che puntualmente vengono gettati nelle acque reflue. Questo è un problema ancora emergente, ma non sappiamo quali saranno gli effetti“.
Reker ha citato l’esempio della Germania, dove è stato riscontrato un calo preoccupante nella fertilità degli uomini sotto i 40 anni rispetto a quanto rilevato 30 anni fa, dichiarando: “resta difficile dimostrare un nesso causale tra contaminanti specifici e la riduzione della fertilità. Tuttavia, i risultati degli esperimenti su animali e dei programmi di monitoraggio della salute umana indicano che la presenza di inibitori endocrini nell’ambiente, come il PCB, può essere parzialmente responsabile di questa riduzione della fertilità“.
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