Dopo mesi di isolamento dal mondo esterno tornare alla vita di sempre può essere difficile, nonostante ci si possa riprendere quegli spazi che fino a poco tempo fa pensavamo irrinunciabili. Ma proprio questi luoghi, come negozi, centri commerciali e locali pubblici ora potrebbero essere la dimora di una minaccia invisibile: le superfici potrebbero essere contaminate e le particelle di virus sospese nell’aria potrebbero essere inalate. Il modo in cui ci muoviamo all’interno di questi spazi è cambiato in maniera radicale, anche e soprattutto per via delle nuove norme di sicurezza relativa alla distanza interpersonale. Possiamo trovare qualcosa in comune con un’altro evento tanto tragico, come ad esempio il disastro di Chernobyl?
La pandemia di coronavirus non è infatti l’unica minaccia che le comunità di tutto il mondo hanno dovuto affrontare. Si potrebbe quindi citare il disastro della centrale nucleare di Chernobyl, nel 1986, evento che diffuse radiazioni in quasi tutta l’Europa, causando migliaia di sfollati e decessi. A quel tempo, le risposte alla contaminazione erano varie. Secondo le testimonianze raccolte dalla giornalista bielorussa Svetlana Alexievich, una residente dichiarò che il primo impulso fu quello di lavare accuratamente casa; un altro ha rivelato che in famiglia iniziarono a pulire ossessivamente maniglie e sedie; insomma, dinanzi ad avvenimenti così impattanti sulla nostra vita, la reazione delle persone non è scontata.
La risposta degli abitati di Chernobyl alla tragedia presenta quindi agghiaccianti similitudini con quella che oggi abbiamo imparato ad osservare in conseguenza della pandemia. Abbiamo paura di toccare determinate superfici, motivo per cui tendiamo ad evitarlo. Molto spesso tendiamo a porre magari troppa attenzione al nostro respiro e a volte arriviamo a sentirci senza fiato, tale è la pressione psicologica cui siamo inevitabilmente sottoposti. Guanti e mascherine ci rendono più sicuri, certo, ma il loro utilizzo non implica che possiamo abbassare troppo la guardia.
Nel caso di Chernobyl, il passare del tempo ci ha permesso di rivalutare lo spazio che ci circonda. Il sito è diventato una destinazione turistica e le persone hanno la possibilità di esplorare i villaggi abbandonati, ancora radioattivi, ormai abbandonati. I turisti cercano attivamente l’esperienza che stiamo tutti oggi vivendo: quella di un pericolo invisibile; oggi a Chernobyl il rischio è ritenuto piuttosto basso, ma per molti si tratta di un’esperienza entusiasmante. Tuttavia, nel caso di Covid-19, questa “traslazione” è ancora in corso e può essere estenuante.
Quello che i luoghi suscitano nella nostra psiche e il modo in cui essi incidono sul nostro comportamento si chiama psicogeografia, un termine coniato dall’artista Guy Debord negli anni ’60. Viene generalmente utilizzato per descrivere in che modo la pianificazione urbana influenza le emozioni e i movimenti delle persone, ma è più difficile da applicare quando è coinvolto un aspetto invisibile del luogo, come gli agenti contaminanti. Senza input sensoriali come vetri rotti o fumo per indicare il pericolo, è difficile valutare il rischio.
A volte possiamo fare affidamento sulla tecnologia, ad esempio sui dosimetri utilizzati a Chernobyl per registrare i livelli di radiazioni, al fine di valutare il pericolo in modo più accurato; altrimenti, i rischi invisibili sono puramente concettuali. La valutazione del rischio personale si basa quindi sulla comprensione culturale condivisa, sulla conoscenza generale delle radiazioni o delle infezioni e sulle istruzioni degli esperti. Questo può portare a risposte molto varie. All’estremità del ragionamento vi è la violazione delle regole: coloro che non hanno fiducia nella politica del governo decidono in autonomia e il desiderio di normalità rispetto ai dati scientifici in evoluzione prevale.
Le ragioni per infrangere le regole sono basate sulle nostre esperienze sociali e culturali. Coloro che provengono da contesti privilegiati e culturalmente più elevati possono lamentare una violazione dei loro “diritti”, come sta accadendo negli Stati Uniti, dove folle di manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici della capitale chiedendo il diritto ad un taglio di capelli. In netto contrasto, dopo il disastro di Chernobyl i coloni tornarono alle loro case all’interno della zona di esclusione, nonostante i pericoli. Le loro azioni erano fondate dal trauma dello sfollamento, dalla fuga dalla discriminazione, guidate dalla necessità di sentirsi al sicuro in casa propria.
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