Come si è visto nel fine settimana scorso, tracce del coronavirus si possono trovare nelle acque reflue. Un ritrovamento fatto a Parigi, ma ancora prima si era visto in Australia e Stati Uniti. Attualmente sta venendo messo appunto un nuovo approccio in grado di monitorare quest’ultimo, oltre che altre sostanze. Si tratta dell’epidemiologia delle acque reflue, o WBE.
Il funzionamento è semplice. Si estraggono campioni di questo genere di acque e si cercano alcune sostanze le quali possono aiutare a creare delle mappe relative alle infezioni. Tra le promesse di tale approccio c’è la capacità di trovare microbi resistenti, indicatori sanitari di diabete e altro ancora.
Le parole dei ricercatori coinvolti: “I nostri risultati mostrano che la dipendenza esclusiva dai test sugli individui è troppo lenta, proibitiva in termini di costi e, nella maggior parte dei casi, poco pratica, data la nostra attuale capacità di test. Tuttavia, se preceduto da uno screening della popolazione delle acque reflue, il compito diventa meno scoraggiante e più gestibile.”
Alla caccia del coronavirus, di microbi, di droghe e tanto altro
“Siamo in grado di monitorare una intera comunità per la presenza del nuovo coronavirus. Tuttavia, esistono dei compromessi. Per ottenere i migliori risultati ed evitare la perdita di informazioni, vogliamo misurare vicino agli hotspot dei virus e tenere conto della temperatura delle acque reflue e della diluizione quando si stima il numero di casi infetti.”
Questo approccio si basa sul fatto che una persona, in media, è in grado di liberare milioni e milioni di genomi virali nelle acque reflue al giorno. Un numero elevato di tracce che si possono trovare in un semplice litro d’acqua.
Per ora lo studio si basa sul sistema di acque reflue degli Stati Uniti ed è stato calcolato che si può fare uno screening del 70% della popolazione per il SARS-CoV-2 tramite 15.014 impianti con un costo irrisorio messo in confronto ad altro, 225.000 dollari.