La cannabis potrebbe aiutare a curare il diabete? Un piccolo ma crescente gruppo di ricerche suggerisce che alcuni cannabinoidi possono essere promettenti per fare ciò. L’ultima aggiunta alla letteratura scientifica proviene dall’Istituto di chimica biomolecolare in Italia. In uno studio pubblicato sulla rivista Molecules, i ricercatori hanno scoperto che il cannabimovone (CBM), un raro cannabinoide, può sensibilizzare le cellule all’insulina. CBM si unisce quindi a CBD, THC, THCV e THCA come una strada potenzialmente promettente di ricerca per la prevenzione del diabete.
Purtroppo il diabete è una malattia molto diffusa in tutto il mondo,caratterizzata dalla presenza di troppo zucchero nel sangue. Non trattato, può portare a problemi di salute come malattie cardiache, ictus e cecità, tra gli altri. Esso si distingue i diabete di tipo 1, presente come condizione genetica sin dalla nascita, e diabete di tipo 2, che può formarsi nel tempo e che rientra nelle cosiddette malattie da stile di vita.
Poiché il diabete di tipo 2 può essere prevenuto, il primo passo nella sua gestione comporta spesso cambiamenti nella dieta e nell’esercizio fisico e, nei casi più estremi, utilizzo di trattamenti farmacologici. Questi farmaci agiscono più comunemente abbassando i livelli di zucchero, aumentando la produzione di insulina o sensibilizzando le cellule all’insulina. Sebbene efficaci nella gestione della malattia, i farmaci possono anche presentare alcuni gravi effetti collaterali.
Il cannabimovone (CBM) è un raro cannabinoide isolato per la prima volta da una varietà di canapa italiana nel 2010. Mentre il CBM è raro nella maggior parte dei ceppi della pianta, i ricercatori hanno avuto pochi problemi a sintetizzare la molecola in laboratorio. I ricercatori italiani erano interessati agli effetti insulino-sensibili al THC e al CBD e si chiedevano se esistessero altri cannabinoidi che potrebbero fare lo stesso con meno effetti collaterali.
Usando la modellazione al computer, hanno cercato nel loro database di cannabinoidi, ed eccolo lì: il CBM si adattava al modello. Il team italiano ha valutato quanto fosse tossica la CBM esponendo un gruppo di cellule renali in vitro a varie concentrazioni del composto. Le cellule hanno funzionato bene a tutti i livelli di concentrazione, il che significa che questa sostanza ha superato il suo primo test nel suo cammino verso il potenziale trattamento terapeutico contro il diabete di tipo 2.
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