I neuroni di chi ha pensieri suicidi attivano un modello completamente diverso da quello di una persona “non suicida”. Questo è ciò che i ricercatori dell’Università di Pittsburgh e dell’Università di Carnegie Mellon hanno scoperto grazie a degli algoritmi per distinguere questi soggetti utilizzando dati provenienti da scansioni fMRI del cervello.
Gli scienziati hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista Nature Human Behavior. E sperano di studiare un gruppo più grande di persone e utilizzare i dati per sviluppare semplici test che i medici possano utilizzare per identificare più facilmente i soggetti a rischio di suicidio.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani adulti, secondo i centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie. Ma prevedere un tentativo di suicidio è impegnativo. I metodi attuali si basano su un paziente e la sua “auto-segnalazione” attraverso un questionario o in un’intervista, spesso inaffidabile. I terapeuti che intervistano un paziente potrebbero perdere i segnali del pericolo o, ancora, il paziente potrebbe mentire nel momento dell’intervista ma cambiare atteggiamento in seguito. E questo, secondo gli esperti, potrebbe essere ricondotto al fatto che il paziente si comporta in un dato modo perchè non vuole essere ricoverato. “Tutti questi fattori non coincidono con una previsione accurata“, sostengono i ricercatori.
Le scansioni del cervello, però, sono molto pronunciate, soprattutto quando analizzate con un algoritmo. Lo confermano gli scienziati: “Stiamo cercando di capire cosa succede nel cervello di una persona quando sta pensando al suicidio”.
Queste scansioni, realizzate con immagini di risonanza magnetica funzionale, mostrano che parole forti – come “morte”, “problemi”, “spensierati” e “lode” – innescano diversi modelli di attività cerebrale nelle persone con propensioni suicide, rispetto a persone che non lo sono. Ciò significa che le persone a rischio di suicidio pensano a questi concetti in modo diverso da tutti gli altri – evidenziati da livelli e modelli di attività cerebrale o firme neurali.
Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato 34 volontari tra i 18 e i 30 anni, di cui una metà a rischio e l’altra metà non a rischio di suicidio. Ed hanno mostrato ai partecipanti una serie di parole relative ad aspetti positivi e negativi della vita, o parole relative al suicidio. Quindi, i ricercatori hanno registrato il flusso sanguigno cerebrale nei volontari mentre pensavano a queste parole e hanno alimentato i dati degli algoritmi, indicando quali volontari erano a rischio di suicidio e chi non lo era. Gli algoritmi hanno poi appreso il modo in cui appaiono le firme neurali nel cervello di una persona suicida.
Questo studio ha collegato alcune emozioni con il suicidio. Tuttavia, si dovrà condurre uno studio più accurato per confermare quali emozioni e parole innescano in modo inequivocabile pensieri tendenti al suicidio.