Un recente studio suggerisce che praticare esercizi di respirazione ritmica può avere un impatto sui livelli di peptidi associati al morbo di Alzheimer. Lo studio, condotto dai ricercatori della University of Southern California, mirava a esplorare se l’induzione di lente oscillazioni della frequenza cardiaca durante la respirazione lenta potesse aumentare la pulizia dell’amiloide-beta, una proteina associata alla patologia, dal cervello.
I ricercatori hanno creato due gruppi di volontari di adulti sia giovani che anziani senza gravi condizioni mediche per lo studio. I partecipanti si sono impegnati in esercizi di biofeedback due volte al giorno per 20 minuti ogni volta, utilizzando un cardiofrequenzimetro. Un gruppo ha praticato il pensiero calmo mentre monitorava la frequenza cardiaca, mentre l’altro gruppo ha misurato il ritmo della respirazione con l’obiettivo di aumentare le oscillazioni della frequenza cardiaca indotte dalla respirazione.
Come la respirazione può aiutare le persone che soffrono di Alzheimer
Sono stati raccolti campioni di sangue dai partecipanti e sono stati misurati i livelli di peptidi beta-amiloide, in particolare beta-amiloide 40 e 42. Analizzando i campioni raccolti è stato visto come il gruppo che praticava esercizi di respirazione ritmica mostrava una diminuzione dei livelli in questione. Al contrario l’altro gruppo ha registrato un aumento. Lo stesso modello di risultati è stato osservato sia per gli adulti più giovani che per quelli più anziani. I meccanismi sottostanti responsabili di questi effetti non sono ancora del tutto chiari sul morbo di Alzheimer.
I ricercatori hanno proposto tre possibili modi in cui il controllo delle fluttuazioni della frequenza cardiaca potrebbe influenzare i livelli di amiloide-beta: riducendone la produzione, migliorandone l’eliminazione dal corpo e aumentandone l’eliminazione dal cervello. I risultati evidenziano anche l’importanza di un’eliminazione efficiente dell’amiloide-beta dai tessuti periferici per mantenerne l’equilibrio e prevenirne l’accumulo nel cervello. In ogni caso questa scoperta suggerisce il potenziale di tali interventi nella modulazione dei biomarcatori correlati alla malattia.