L’azienda del fenomeno videoludico degli ultimi tempi, Epic Games, ha rilasciato nelle scorse ore un nuovo aggiornamento contenuto per il suo videogioco Fortnite. Parliamo del primo di una serie di tre release di questo tipo. Questo ha portato all’interno del battle royale una serie di novità molto interessanti. Una di queste è il ritorno del Pump Shotgun.
Tra le varie modifiche apportate al gameplay non poteva mancare, ovviamente, l’introduzione di un oggetto nuovo. Questa settimana è toccato ad un’arma, la Revolver. In questo articolo andiamo ad elencarvi tutte le caratteristiche del nuovo oggetto. Si tratterà di un’aggiunta apprezzata dagli utenti?
Fortnite: ecco le caratteristiche della nuova Revolver
Ebbene sì, questa settimana Epic Games ha voluto deliziare i giocatori con l’introduzione di una nuova pistola, la Revolver. Questa risulta essere disponibile in solo due rarità, Epica e Leggendaria. Di conseguenza, trovarla all’interno delle partite sarà abbastanza difficile. La nuova arma può essere trovata nel bottino a terra, nei forzieri, nei distributori automatici, nelle consegne di rifornimenti e nei trasportatori di bottino.
Il danno che la Revolver affligge al corpo è rispettivamente di 63/66 punti vita in base alla rarità. Nel caso in cui si colpisca la testa si applica il moltiplicatore x2. L’arma utilizza colpi medi e può contenere all’interno del caricatore un massimo di 6 colpi. Al momento non sappiamo dire se la community di Fortnite ha apprezzato l’introduzione dell’oggetto all’interno del battle royale. Per avere un chiaro riscontro bisognerà aspettare qualche giorno. Restate in attesa per ulteriori aggiornamenti a riguardo.
I ricercatori potrebbero aver scoperto un nuovo uso in ambito medico del cannabidiolo (CBD), una particolare molecola presente nelle piante di cannabis conosciuta per non avere effetti psicotropi. Durante l’annuale conferenza della American Society for Microbiology, Mark Blaskovich, un ricercatore dell’Università del Queensland, ha presentato la sua scoperta: il CBD è “straordinariamente efficace” nell’uccidere una serie di batteri, inclusi diversi ceppi resistenti agli antibiotici.
La scoperta è molto importante, perchè significa poter disporre di una nuova arma nella lotta contro i “superbatteri“. Attraverso il suo studio, finanziato in parte da una società che si occupa di studiare gli effetti delle droghe, la Botanix Pharmaceuticals, Blaskovich ha scoperto che una forma sintetica di CBD era in grado di uccidere diversi tipi di batteri Gram-positivi in laboratorio, compresi quelli che possono portare a patologie come la MRSA e polmonite. Inoltre, il composto è risultato anche efficace nel trattamento di un’infezione della pelle in alcuni topi.
Il CBD potrebbe essere efficace, ma i risultati sono ancora precari
Tuttavia, sembra che il CBD non sia efficace contro i batteri Gram-negativi, che sono generalmente più resistenti agli antibiotici. Lo studio di Blaskovich potrebbe aver dato risultati promettenti finora, ma si tratta di risultati ancora in fase sperimentale; il suo lavoro deve ancora essere rivisto da colleghi o comunque pubblicato su una rivista scientifica, tant’è vero che nemmeno egli stesso è sicuro delle implicazione che il CBD potrebbe avere nella lotta ai batteri.
“Si rende necessario un lavoro molto più lungo al fine di mostrare il CBD possa tornare utile per trattare alcuni tipi di infezioni negli esseri umani“, ha detto Blaskovich a Live Science. “Sarebbe molto pericoloso cercare di curare una grave infezione con cannabidiolo piuttosto che ricorrere ad antibiotici la cui efficacia sia già stata ampiamente sperimentata“.
Secondo le ultime misurazioni del rover Curiosity, sembra che marte stia rilasciando una grande quantità di gas nell’atmosfera marziana. Gli scienziati hanno analizzato i dati del rover Giovedì scorso. I risultati hanno evidenziato una sorprendente quantità di metano nell’aria, un gas associato alla presenza di organismi viventi.
Dopo decenni di osservazioni sulla pianeta rosso, gli scianziati si stanno finalmente chiedendo se i più piccoli organismi viventi possano essersi nascosti sotto terra per sopravvivere. Come ha affermato Ashwin R. Vasavada, lo scienziato a capo della missione: “Dato questo risultato sorprendente, abbiamo riorganizzato il fine settimana per eseguire un esperimento di follow-up“. Così, venerdì scorso, il team ha inviato nuove istruzioni al rover per eseguire delle analisi sul terreno.
I rilevamenti di metano su Marte
Il recente rilevamento di metano indica che esso sia stato rilasciato poco tempo fa. Dato che perché la luce solare e le reazioni chimiche ne spezzano le molecole entro pochi secoli. Ma è anche possibile che esso sia rimasto intrappolato negli strati inferiori della superficie marziana e che esso stia lentamente sfuggendo attraverso delle fessure. Tuttavia, anche le reazioni geotermiche prive di organismi biologici possono generare metano. Per questo motivo la NASA ha affermato: “Per mantenere l’integrità scientifica, il team scientifico del progetto continuerà ad analizzare i dati prima di confermare i risultati“.
Già in precedenza l’agenzia spaziale aveva rilevato la presenza di metano su Marte. Circa 15 anni fa le misurazioni del Mars Express, un’astronave orbitante costruita dall’Agenzia Spaziale Europea, avevano individuato delle tracce del gas. Nonostante questo, queste scoperte erano al limite del potere di rilevamento degli strumenti. Per questo motivo i ricercatori avevano pensato che il rilevamento del metano fosse solo il risultato al alcuni dati errati. Successivamente, quando Curiosity arrivò su Marte nel 2012, non trovò nulla di quanto rilevato in precedenza e gli scienziati non hanno più trovato tracce di gas fino ad oggi.
Chernobyl è sinonimo di disastro, di paura del nucleare, di errore umano, di corruzione e di tanto altro ancora. Detto questo risulta anche essere un luogo misterioso e affascinante e la recente mini-serie di HBO ha riportato l’attenzione su questo posto, forse con risultati non sperati. L’attenzione che sta ricevendo potrebbe essere un problema visto che la natura sta cercando di riprendersi il suo legittimo posto e ci sta riuscendo. Abbiamo già visto come la fauna è tornata prosperare, una fauna molto variegata com’è giusto che sia, ma anche la flora si sta impegnando.
In realtà la vegetazione non hai mai sofferto i danni delle radiazioni. Solamente le piante più deboli sono morti a causa delle radiazioni mentre le altre hanno subito solo alcuni danni che si sono risolti nel giro di tre anni. La parte straordinaria è che la vegetazione non sembra soffrire di mutazioni nel DNA, di cancro.
Chernobyl e l’abilità delle piante
Le radiazioni risultano essere più pericolosi negli animali, e quindi anche su di noi, mentre le piante no in quanto hanno un sistema adattativo. Una pianta è immobile e quindi è costretta a doversi adattare all’ambiente circostante. Se l’acqua si trova più in profondità allora le radici risulteranno più profonde, se la luce non arriva in basso allora il tronco si alzerà di più, detto in maniera molto semplicistica. Un altro aspetto è che i danni delle mutazioni risultano essere localizzati nelle zone e quindi non possono diffondersi a tutta la pianta, al contrario di quello che succede dentro di noi.
In ogni caso la vegetazione di Chernobyl ha subito cambiamenti evidenti tanto che le piante risultano essere più grosse, almeno nella media. Sarà interessante vedere come nel futuro questa zona, ormai la riserva naturale più grande d’Europa, si evolverà.
La cittadina statunitense Amy Christie Hunter, ha immortalato l’immagine di una particolarissima formazione atmosferica sopra le Smith Mountain nello stato della Virginia. Quelle fotografate dalla sig.ra Hunter sono delle nuvole a forma di onda che ricordano in modo spettacolare, quelle del dipinto “La Notte Stellata” di Vincent Van Gogh.
Le nuvole ad onda create dall’instabilità di Kelvin-Helmholtz
Questo particolare fenomeno è conosciuto come instabilità di Kelvin-Helmholtz ed è un tipo di instabilità fluidodinamica che si presenta quando i diversi strati di un fluido sono in moto relativo gli uni rispetto agli altri. Fu scoperta e studiata da Lord Kelvin e da Helmholtz.
L’esempio più semplice che si può concepire, in due dimensioni, è quello di due fluidi ideali con un interfaccia piana ed una differenza di velocità uniforme tra loro. Quando l’interfaccia piatta che separa i due fluidi viene perturbata, le particelle di fluido che avevano una velocità nulla, finiranno col trovarsi in una regione dove vi era invece una velocità finita. Lo scompenso di queste particelle crea un’instabilità che alimenta l’ampiezza della perturbazione portando le particelle delle due diverse regioni a mischiarsi tra loro, formando dei vortici e facendo perdere definitivamente la configurazione che era presente all’inizio.
È proprio grazie a questo fenomeno che si sono formate le straordinarie nuvole ritratte dalla sig.ra Hunter, che sembrano delle onde appoggiate delicatamente sulle montagne, in netto contrasto con il cielo scuro ed il verde della vegetazione. Una formazione nuvolosa rara e affascinante, immortalata anche dal pittore olandese nel 1889, che la rese famosa quindi grazie alla sua celebre “Notte Stellata”.
L’immagine ha subito suscitato un grande interesse
La stessa Amy Hunter è rimasta affascinata dall’evento ed ha affermato ai giornali locali di aver “notato le nuvole che si stavano formando, non riuscivo a crederci. Ho afferrato il mio iPhone per scattare un paio di foto. Pochi minuti dopo è apparso un arcobaleno. È stato davvero incredibile. Sono stata fortunata a vederlo! La formazione delle nuvole era davvero incredibile, non potevo credere a quello che stavo vedendo. Non avevo idea che esistesse un nome scientifico per questo“.
La sig,ra Hunter si è resa conto di quanto fosse particolare l’evento meteorologico fotografato, dopo aver postato la foto sui social ed aver scoperto lo straordinario interesse suscitato dalla sua immagine. Molti infatti i giornali e telegiornali che l’hanno contattata tramite il suo post su Facebook.
No, il successo non riguarda qualche invenzione particolare che faciliterà i viaggi spaziali, ma piuttosto un qualcosa che dovrebbe venire dopo. Si tratta del portare avanti il genere umano e quindi la riproduzione e la procreazione. Come si sa la permanenza nello spazio causa alcuni effetti negativi al corpo umano e tra questi effetti ce ne sono alcuni che riguardano l’apparato riproduttivo maschile, e più nello specifico lo sperma.
La microgravità e le radiazioni influiscono sui campioni freschi e quindi l’alternativa è congelarli per poi utilizzarli a viaggio concluso, o comunque con un utilizzo immediato. Uno studio si è quindi concentrato sul capire cosa succede a campioni congelati a seguito della microgravità. Per imitare tale condizione un piccolo velivolo contenente tali campioni ha effettuato movimenti parabolici per 20 volte salendo nell’atmosfera e poi scendendo a grande velocità
Viaggi spaziali, sperma congelato e microgravità
Ovviamente queste condizioni non risultano essere così estreme come nel caso dello spazio profondo, ma è un inizio. In ogni caso questo primo step è risultato essere un successo visto che l’analisi dello sperma alla fine del tutto è risultato essere positiva. Detto questo dall’equazione è stata tolta solamente la microgravità, ma come detto c’è anche la questione delle radiazioni.
Per questo aspetto ci sono altri studi in corso d’opera che cercano di capire gli effetti di queste radiazioni. Molti di questi sono ai primi stati è stanno sfruttando campioni biologici di mammiferi come i topi. Alcuni di questi hanno mostrato che anche se ci sono dei cambiamenti poi una volta riportati sulla Terra hanno portato alla nascita di individui sani; il DNA umano è ovviamente molto diverso e quindi c’è altro da capire.
Da sempre abbiamo associato i buchi neri ad una straordinari forza distruttrice, in grado di spegnere persino la luce, che rimane intrappolata nell’oscuro cuore del buco nero. Ma un recente studio effettuato sui buchi neri supermassicci potrebbe invece indicarli come portatori di vita. Sembra infatti che le radiazioni emesse dalla dirompente forza di attrazione dei buchi neri, possano essere in grado di portare alla formazione di biomolecole che costituirebbero i mattoni per la creazione della vita e permetterebbero persino di fotosintetizzare.
L’attività dei buchi neri supermassicci
Questa ricerca, pubblicata sull’Astrophisical Journal, potrebbe quindi suggerire la possibilità di vita in altri mondi, ad esempio in altri sistemi della Via Lattea, nel cui centro si trova il buco nero supermassiccio Sagittarius A*. All’interno dello studio sono stati creati numerosi modelli computerizzati per l’osservazione dei dischi di gas e polvere che ruotano attorno ai buchi neri, aumentando la loro velocità in loro prossimità. Questi dischi, sono presenti attorno ai buchi neri in forte attività che rendono le loro galassie note come nuclei galattici attivi (AGN), tra i più luminosi oggetti dell’universo.
L’energia che alimenta gli AGN è prodotta infatti dalla materia che precipita all’interno di un buco nero supermassiccio e che crea un disco di accrescimento attorno al buco nero. L’attrito riscalda la materia trasformandola in plasma, un materiale carico in movimento produce un forte campo magnetico. Il materiale che si muove dentro questo campo magnetico produce grandi quantità di radiazioni di diversa natura. Spesso, vengono osservati getti che si originano dal disco di accrescimento.
Si pensa che quando il buco nero ha inglobato tutto il gas e la polvere nelle sue vicinanze, semplicemente il nucleo smette di emettere grandi quantità di radiazione e la galassia diventa “normale”. Questo modello è supportato da osservazioni che suggeriscono la presenza di un buco nero supermassiccio ma tranquillo nel centro della Via Lattea, una galassia una volta attiva, ma ormai normale dopo aver esaurito la materia attorno al suo buco nero, anche se non si esclude che possa un giorno “riaccendersi” se nuova materia arriva nei pressi del nucleo.
Emissioni e radiazioni dei buchi neri: dannose o probabili fonti di vita?
Le radiazioni emesse dai dischi di accrescimento dei buchi neri nelle AGN, sono da sempre state considerate dagli scienziati dannosi per la vita, e per questo hanno sempre considerato la zona attorno ad essi come sterile ed inadatta alla vita.
Secondo Manasvi Lingam, astronomo ed autore principale dello studio, “la maggior parte delle persone parlava degli effetti dannosi. Volevamo riesaminare quanto fossero effettivamente dannose [le radiazioni]… e chiederci se potessero esserci anche degli effetti positivi.”
Secondo i modelli sviluppati dal team guidato da Lingam infatti, dei pianeti con un atmosfera molto più densa di quella della Terra, o abbastanza lontani dai nuclei attivi, potrebbero anche ospitare la vita. Questo sarebbe dunque possibile se questi ipotetici pianeti si trovassero quindi in quella zona sicura, conosciuta come Goldilocks (riccioli d’oro), in cui non vi sia un eccessiva radiazione ultravioletta che potrebbe distruggere l’atmosfera, ma sia comunque in una quantità sufficiente da poter creare le biomolecole necessarie allo sviluppo della vita.
La zona Goldilocks è una fascia teorica in cui un pianeta riceve abbastanza energia dalla sua stella da permettere la nascita della vita, ma non troppa da impedirla. La stessa teoria è stata dunque applicata ai buchi neri e alle radiazioni emesse dal loro accrescimento.
Fotosintesi grazie agli AGN
Inoltre gli AGN, emettono enormi quantità di luce, che sappiamo essere fondamentale per la vita. Questo aspetto è infatti fondamentale per la fotosintesi delle piante su eventuali pianeti vicini. Secondo gli scienziati infatti, ampie zone delle galassie in cui si trovano buchi neri supermassicci attivi, potrebbero sostenere la fotosintesi grazie agli AGN, sui pianeti eventualmente presenti in questa zona. Pianeti erranti che gli astronomi, secondo Lingam, hanno stimato essere circa 1 miliardo nella zona Goldilocks di una galassia come la Via Lattea.
Questa zona si estenderebbe in una galassia grande come la via Lattea, sino a circa 1000 anni luce dal buco nero al suo centro. Mentre ad esempio in una galassia del tipo nana ultracompatta, quasi tutta la galassia rientrerebbe in questa zona.
Inoltre gli scienziati, in base a nuove analisi sulla radiazione ultravioletta e sui raggi X dell’AGN, hanno concluso che gli effetti negativi delle sue radiazioni sono state in passato sovrastimate. Soprattutto nel caso in cui i pianeti interessati siano provvisti di atmosfere più pesanti di quelle della Terra, il che le renderebbe in grado di assorbire i raggi gamma ed i raggi X, emessi dall’attività dei buchi neri supermassicci.
E potrebbe anche essere plausibile che, analogamente a quanto avvenuto sulla Terra, gli organismi che potrebbero vivere su tali pianeti, abbiano sviluppato delle tecniche di protezione e resistenza alle radiazioni ultraviolette.
Esiste il detto “toccare il fondo del barile”, ma esiste anche quello “non c’è mai limite al peggio“. Quest’ultimo è sostanzialmente il riassunto di quello che alcuni ricercatori hanno scoperto da poco. È stata identificata una particolare crosta di particelle di plastica che si accumulano sulle coste dei mari e degli oceani; per la precisione si accumulano tra le rocce. Gli è già stato dato un nome ovvero plasticrust ed è ovviamente un sottoprodotto di tutta la plastica che finisce in mare.
Questa scoperta è stata fatta da un team di ricercatori del team Marine and Environmental Sciences, o anche detto MARE (causalità). Il loro studio è iniziato nel 2016 e consisteva nel monitoraggio delle coste portoghesi. Il focus era proprio l’accumulo di plastica e di come quest’ultimo avrebbe influito sull’ecosistema.
Plasticrust: la nuova forma di inquinamento
Ecco una dichiarazione di Ignacio Gestoso, un ecologista che fa parte del team MARE: “Queste croste probabilmente hanno avuto origine dallo schianto di grossi pezzi di plastica contro la spiaggia rocciosa, con conseguente incrostazione della roccia in modo simile alle alghe o ai licheni. Come ricercatore ecologista marino, preferirei riportare altri tipi di risultati, e non un documento che descriva questo triste nuovo modo di inquinamento plastico. Sfortunatamente, l’entità del problema è così grande che pochi posti sono privi di inquinamento plastico.”
Questa scoperta va ancora approfondita e va scoperto quanto questa forma di inquinamento risulta essere estesa. Per quanto riguarda il danno all’ecosistema, oltre che visivo visto che risulta coprire il 10% della roccia, riguarda gli animali. Un esempio sono le lumache di mare le quali si attaccano a queste rocce per mangiare le alghe, ma finiscono a anche per nutrirsi di tale plastica.
L’Asteroid Day si avvicina! È infatti prevista per il 30 Giugno, la giornata mondiale degli asteroidi, organizzata dall’ONU. Una giornata che ha lo scopo di attirare l’attenzione l’opinione pubblica globale, sulle tante rocce spaziali, di tutte le dimensioni, che sono disperse nell’infinità dell’Universo.
L’importanza dello studio degli asteroidi sottolineata grazie all’Asteroid Day
Una giornata che vuole porre l’attenzione non solo sull’allarmismo e la paura che spesso queste rocce scatenano nel pubblico, perché gli asteroidi non sono solo una minaccia, ma anche una preziosa fonte di informazioni per l’indagine sulla storia della Terra.
Grazie allo studio degli asteroidi, negli ultimi anni, siamo riusciti ad acquisire infatti molte informazioni su come essi abbiano influenzato l’evoluzione del nostro e di altri pianeti, nonché dei satelliti come la Luna. Molti materiali che compongono la nostra Terra e ne hanno permesso lo sviluppo, sono infatti letteralmente piombati dal cielo proprio grazie a queste minacciose rocce spaziali.
Bennu e Ryugu: due asteroidi importanti per la comprensione della storia della Terra e dell’Universo
Tra gli asteroidi su cui in questo periodo sono attive missioni scientifiche e di ricerca, vi sono gli asteroidi Bennu e Ryugu. Il primo viene studiato dagli USA con la missione Origins Spectral Interpretation Resource Identification Security Regolith Explorer (OSIRIS-REx). Si tratta di una missione spaziale sviluppata dalla NASA per l’esplorazione degli asteroidi nell’ambito del Programma New Frontiers. Il 3 Dicembre 2018, la sonda ha raggiunto l’asteroide Bennu, e dopo 505 giorni trascorsi in orbita attorno all’asteroide, la sonda preleverà un campione dalla sua superficie che porterà sulla Terra nel 2023.
Anche la Hayabusa-2, la sonda giapponese che studia l’asteroide Ryugu, ne riporterà dei campioni sulla Terra. La sonda ha infatti già effettuato con successo i prelievi di materiale dal piccolo Ryugu, un asteroide di quasi 1 km di diametro con una e delle caratteristiche insolite, che potrebbe fornire importanti dettagli sulla storia dell’Universo.
Hayabusa 2 (はやぶさ) è sviluppata dall’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA) ed è stata lanciata il 3 Dicembre 2018, raggiungendo Ryugu il 27 Giugno 2018 ed orbitandogli ad una distanza di circa 20 chilometri. Il primo tentativo di raccolta campioni è stato effettuato il 21 Febbraio 2019 e dopo un secondo campionamento della superficie, avvenuto ad Aprile 2019, è stato finalmente creato il cratere da cui dovrebbe essere prelevato a breve, il materiale non contaminato dall’interazione con i raggi cosmici, vento solare e impatti con micrometeoriti a cui è soggetta la superficie di Ryugu.
Hayabusa riprenderà la strada di casa tra Novembre e Dicembre 2019, e quando si troverà in prossimità del poligono militare di Woomera, in Australia in rilascerà una capsula contente i campioni raccolti. Il viaggio durerà circa un anno e la capsula quindi dovrebbe raggiungere la Terra a Dicembre del 2020, quando la JAXA potrà finalmente analizzare i campioni di Ryugu.
Asteroid Day: sarà presente anche l’ESA con il suo studio sui NEO
All’Asteroid Day sarà presente anche l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), con le sue indagini degli ultimi decenni, sulla rilevazione di asteroidi potenzialmente pericolosi per il nostro Pianeta e per la nostra stessa sopravvivenza.
Sono molte infatti le indagini condotte dall’ESA per l’individuazione dei Near Earth Object (NEO), ovvero tutti quegli asteroidi che hanno in orbita che li porta pericolosamente vicino alla Terra. Fino ad ora l’ESA e altri enti, hanno individuato circa 10 milioni di NEO, considerando comunque solo quelli con un diametro potenzialmente pericoloso, ovvero sopra i 10 m. Sotto queste dimensioni infatti, gli asteroidi si trasformerebbero in semplici meteoriti bell’atmosfera terrestre.
Durante questo evento dedicato agli asteroidi, saranno organizzati eventi a livello globale, che coinvolgeranno moltissime agenzie spaziali ed enti di studio e di ricerca. L’Asteroid Day avrò luogo dunque in tutto il mondo, ed ogni paese partecipante organizzerà incontri convention ed eventi. Sul sito ufficiale dell’Asteroid Day, si potrà consultare l’elenco di tutte le attività organizzate dai diversi paesi.
Lo scorso Lunedì 24 Giugno la NASA ha lanciato un nuovo orologio atomico in orbita. L’orologio, chiamato Deep Space Atomic Clock e sviluppato dal Jet Propulsion Laboratory, servirà a perfezionare sia gli orologi atomici già in uso sulla Terra sia quelli che attualmente si trovano sui satelliti.
Lo scopo del Deep Space Atomic Clock è quello di rendere più autonomi i veicoli che devono affrontare un viaggio spaziale, come in un futuro viaggio su Marte. L’orologio aiuterà gli scienziati a misurare con precisione la posizione della nave spaziale. Inoltre aiuterà i veicoli ad agire da soli, in modo da ridurre le comunicazioni con la Terra.
Come funziona il Deep Space Atomic Clock
Das molti anni gli astronomi utilizzano gli orologi atomici per navigare nello spazio. Grazie a questi, avviene uno scambio di segnali tra le astronavi e la Terra e, grazie alla misurazione del tempo in cui il segnale impiega ad arrivare, sono in grado di determinare l’esatta posizione del veicolo spaziale. Per fare ciò, la NASA ha affermato che servono orologi in grado di misurare i miliardesimi di secondo.
A differenza degli orologi che utiliziamo ogni giorno, quelli atomici non utilizzano degli oscillatori al quarzo, che risulterebbero troppo instabili nello spazio. L’interazione con il quarzo ed altri determinati tipi di atomi può modificare la misurazione dell’orologio di un millisecondo. Nonostante ciò non sembri così rilevante, lo è quando si parla della velocità della luce, che in un millisecondo percorre circa 300 chilometri. Un errore di calcolo che può avere un enorme impatto sulla misurazione della posizione di un veicolo spaziale in rapido movimento.
L’orologio atomico Deep Space Atomic Clock, invece, utilizzerà degli atomi di mercurio. Ciò renderà le sue misurazioni estremamente precise. Secondo la NASA l’orologio modificherà le sue oscillazioni di un nanosecondo dopo quattro giorni e meno di un microsecondo dopo 10 anni. Per questo motivo passeranno circa 10 milioni di anni prima che le sue misurazioni si spostino di un intero secondo.
Grazie al radiotelescopio sardo, Sardinia Radio Telescope (SRT) è stata individuata quella che può essere definita come un’onda anomala nella galassia di Andromeda. Grazie al radiotelescopio situato in località Pranu ‘e sànguni, nel territorio del comune di San Basilio, in provincia di Cagliari, i ricercatori hanno potuto eseguire la mappatura completa della galassia di Andromeda nella banda delle microonde.
Lo studio del SRT nelle microonde: rilevata un onda anomala
I dati raccolti dal SRT, un radiotelescopio alto 64 metri gestito dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), il più grande nel suo genere ed il terzo installato in Italia, sono stati analizzati da un team internazionale di scienziati ed astrofisici. Il lavoro, pubblicato sull’Astrophisical Journal Letter, è stato infatti condotto dal Dipartimento di Fisica de La Sapienza di Roma con la collaborazione della Caltech, dell’università canadese della British Columbia, dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie e dall‘Osservatorio Astronomico di Cagliari e l’Istituto di Radioastonomia di Bologna, entrambi dell’INAF.
Grazie a questo studio la galassia di Andromeda, la più grande del Gruppo Locale a cui appartiene anche la nostra Via Lattea, è stata per la prima volta osservata nelle microonde. Fino ad ora infatti la galassia di Andromeda era stata analizzata solo nello spettro delle onde elettromagnetiche, ma mai nel microonde.
Con questa nuova osservazione, i ricercatori sono riusciti ad individuare, oltre alle emissioni elettromagnetiche dovute all’interazione tra il materiale interstellare ed il campo magnetico, anche una particolare onda, definita “anomala”, che sembrerebbe essere in eccesso e che non è spiegabile senza che siano ipotizzati dei nuovi meccanismi di radiazione nella galassia.
Per il momento gli astrofisici ritengano possa trattarsi di un emissione di radiazioni dovuta alla rapida rotazione dei minuscoli granelli che compongono la polvere interstellare della galassia di Andromeda. Ma nulla è ancora certo.
Una nuova osservazione per conoscere nuove aspetti della Galassia di Andromeda
Questa nuova osservazione apre quindi la porta a tutta una nuova serie di studi su questa affascinante ed enorme galassia a spirale gigante, che dista circa 2,538 milioni di anni luce dalla Terra in direzione della costellazione di Andromeda, da cui prende il nome. Così grande da essere visibile anche a occhio nudo ed è l’oggetto più lontano visibile senza l’ausilio di strumenti. Conterrebbe circa un bilione di stelle (mille miliardi), un numero molto più alto di quello della Via Lattea e con una magnitudine apparente pari a 4,4, la Galassia di Andromeda è uno degli oggetti di Messier più luminosi.
Ora grazie a questi nuovi studi è finalmente possibile osservare la galassia di Andromeda nella sua totalità e potremo acquisire nuove informazioni e conoscenza sulla sua formazione stellare, sul suo campo magnetico e sulla possibilità che vi siano delle emissioni, nella banda delle microonde, provocate da molecole d’acqua.
Mancano meno di tre mesi alla presentazione ufficiale dei tre nuovi smartphone della mela morsicata. Apple ha oramai tutto già pronto, il design è stato confermato e non ci sono più dubbi sulle caratteristiche tecniche. Anche le aziende di terze parti sembrano essere già pronte per il lancio. Nelle scorse ore, sono apparse online le immagini delle cover di iPhone 11 Max.
Olixar ha deciso di rilasciare alcune immagini di quelle che saranno le cover per i futuri iPhone 11. In particolare, nelle scorse ore sono state rese note quelle di iPhone 11 Max. Le immagini ci permettono di apprezzare al meglio quello che sarà il design del nuovo smartphone. Pare, infatti, che vengano confermate le voci sentite fino ad ora. iPhone 11 Max avrà il design del predecessore ma con piccoli cambiamenti. Si fa spazio sul retro l’ampio riquadro per la tripla fotocamera, mentre sul lato compare un ridisegnato tasto verticale di silenziamento.
Le foto mostrano anche un notch di dimensioni decisamente ridotte. Tuttavia, pare che questa caratteristica non riscontri quello che sarà il risultato finale. Ricordiamo che questi risultano solamente essere dei render ben fatti. Per vedere il design definitivo bisognerà aspettare ancora un po’. Restate in attesa per ulteriori aggiornamenti a riguardo.
L’azienda della mela morsicata ha presentato il nuovo iOS 13, insieme ad altri aggiornamenti importanti, ad inizio mese. Fino ad ora, questa ha presentato solo due beta dell’aggiornamento per iPhone. Le release sono stata un’esclusiva per gli sviluppatori. Nelle scorse ore, Apple ha sorpreso tutti con il lancio anticipato della beta pubblica.
Ebbene sì, l’uscita della beta pubblica di iOS 13 non era prevista così presto. Il colosso di Cupertino aveva annunciato, infatti, che la prima beta pubblica sarebbe arrivata solamente nel corso del mese di luglio. Non ci è dato sapere il perchè di questo cambio di direzione. In questo articolo andiamo a scoprire come fare per scaricarla.
Apple: la prima beta di iOS 13 è ora disponibile per i beta tester
La beta pubblica rilasciata nelle scorse ore sembra equivalere alla seconda beta rilasciata la scorsa settimana in esclusiva per gli sviluppatori. L’aggiornamento è scaricabile solamente se si è iscritti al programma Apple di beta testing. Chiunque può iscriversi. Non bisogna fare altro che recarsi all’interno del sito dedicato e seguire la procedura guidata. Una volta iscritti si avrà la possibilità di ricevere l’aggiornamento.
Ricordiamo che la beta di iOS 13 ha già con sé le feature principali presentate durante il WWDC. Sarà quindi possibile provare la tanto attesa modalità Dark. Trattandosi di una beta, però, potrebbero verificarsi dei bug. E’ sconsigliato scaricare l’aggiornamento su dispositivi di utilizzo primario. Questa risulta essere solo la prima delle beta pubbliche di iOS 13. Ve ne saranno altre prima del lancio ufficiale. Restate in attesa per ulteriori aggiornamenti a riguardo.
Il problema della sicurezza purtroppo persiste anche nel 2019. Hacker e malintenzionati cercano continuamente metodi per entrare nei device altrui per rubare dati sensibili di carte e conti bancari.
Ci sono vari metodi per rubare dati sensibili, come utilizzare attacchi phishing o infettare eventuali applicazioni o file, proprio come scoperto recentemente da uno studio, che ha individuato migliaia di applicazioni su Play Store potenzialmente pericolose.
Migliaia di applicazioni su Play Store sono infette
Lo studio è stato pubblicato recentemente e si riferisce ad un’analisi durata ben due anni, condotta dai ricercatori dell’Università di Sydney in collaborazione con il team Data61 di CSIRO. Sono state individuate ben 2040 applicazioni infette che hanno attirato molta preoccupazione, visto che tra le applicazioni infette non ci sono solo quelle sconosciute e quasi mai scaricate, ma anche applicazioni molto famose e presenti su molti device, come, per esempio, il famoso gioco per smartphone e tablet Temple Run.
Il campione di 50.000 app è stato poi a sua volta analizzato. Lo scopo era intercettare eventuali malware al loro interno. Lo strumento di analisi usato si chiama VirusTotal. L’antivirus ha segnalato almeno 7.246 app con malware. E’ stato poi applicato un ulteriore filtro per individuare quelle effettivamente malevole e quelle no, e alla fine i ricercatori hanno determinato che di tutte le applicazioni prese in considerazione 2.040 sono da considerarsi false e molto rischiose per gli utenti.
Google, dopo lo studio, è subito corsa ai ripari e la maggior parte delle applicazioni infette da malware scoperte sono state prontamente rimosse dalla piattaforma Play Store.
C’è grande attesa per la nuova connettività 5G, ormai in dirittura d’arrivo e pronta a diffondersi, che porterà un’esperienza di navigazione su Internet completamente migliorata, con velocità che raggiungono anche 1 Gb/s. La rete è già attiva in Italia anche se copre, per ora, solo i più grandi centri urbani e i poli industriali più importanti d’Italia. Ci saranno esperienze in tempo reale da remoto, una maggiore capillarità nella gestione degli elementi “Smart City” e, non da ultimo, prestazioni e latenze saranno generalmente superiori.
Ovviamente si aspettano gli effettivi smartphone che supporteranno questa connettività, tramite il modem apposito, e le prime offerte dei vari operatori telefonici, di cui TIM le ha già ufficialmente annunciate.
Ecco le prime offerte TIM per il 5G
Ovviamente, come ogni nuova tecnologia, i prezzi sono decisamente più altri della tecnologia in uso precedentemente, come anche giusto che sia. L’operatore italiano TIM ha annunciato le prime due offerte in merito:
29,99 euro al mese per 50 Gb in 5G.
49,99 euro al mese per 100 Gb in 5G.
Ovviamente, prezzi abbastanza alti rispetto alle offerte per il 4G, e anche molto dubbi, visto che si ipotizza che con il 5G i Gb si consumano molto più velocemente della tecnologia precedente, quindi si può arrivare a finirli mensilmente senza difficoltà. Si spera, infatti, per il futuro, una diminuzione generale dei prezzi nel corso degli anni o la nascita di abbonamenti flat, più permissivi.
Ovviamente, le città per ora interessante sono quelle dove effettivamente è possibile collegarsi alla nuova connettività, ovvero Torino, Milano e Roma inizialmente, e, da Luglio, anche a Bari, Matera, Napoli, Firenze, Bologna e Verona.
Sappiamo tutti molto bene quanto le Skin di Fortnite siano ambite dai giocatori. Queste sono considerate un vero e proprio emblema del battle royale. Tra tutte, quelle frutto delle collaborazioni risultano essere le più desiderate. Molte volte, per ottenerle, gli utenti si rivolgono a venditori “abusivi”. E’ proprio a causa di ciò che Epic Games ha deciso di prendere provvedimenti in merito ad una delle sue recenti collaborazioni.
La casa del fenomeno videoludico degli ultimi tempi è molto famosa per le sue numerose collaborazioni. Tra le aziende tecnologiche con cui collabora troviamo, per il momento, Samsung e Honor. E’ proprio con quest’ultima che è stata intavolata l’ultima partnership. Chiunque acquisti il nuovo Honor 20 o Honor 20 Pro riceverà un’esclusiva Skin epica, Wonder. Peccato però, che le due aziende abbiano dovuto interrompere la promozione per un problema alquanto rilevante.
Fortnite: il mercato nero delle Skin continua a crescere
Non è la prima volta che Epic Games si trova a fronteggiare una situazione di queso tipo. Anche con la precedente collaborazione con Honor, infatti, questa si è vista costretta a bloccare la promozione più volte. Ciò che si è verificato con Wonder è praticamente lo stesso. Pare che Epic Games si sia resa conto dell’elevato numero di Skin Wonder illecite presenti negli armadietti degli utenti. A ragione di ciò la promozione è stata bloccata fino a data da definirsi.
E’ molto probabile che la casa di Fortnite decida di rimuovere le Skin Wonder da tutti gli account prima della risoluzione definitiva del problema. Il mercato nero delle Skin di Fortnite è in crescita e l’azienda sta cercando un modo per mettervi fine. Al momento non ci è dato sapere quale sarà la soluzione per questa vicenda. Restate in attesa per ulteriori aggiornamenti a riguardo.
I ricercatori hanno scoperto che la nilvadipina, un farmaco che i medici utilizzano regolarmente per trattare l’ipertensione, è in grado di aiutare le persone affette dalla malattia di Alzheimer, contribuendo ad aumentare il flusso di sangue al cervello. La malattia di Alzheimer è infatti la forma più comune di demenza: questo disturbo progressivo provoca la degenerazione e, in definitiva, la morte delle cellule cerebrali.
Le persone affette da demenza sperimentano un declino cognitivo che causa una serie di problemi anche nel formulare semplici giudizi e svolgere compiti quotidiani; questa malattia colpisce ormai milioni di persone in tutto il mondo. Secondo l’Alzheimer’s Disease International, il numero di persone affette da demenza era vicino ai 50 milioni nel 2017, anche se l’organizzazione afferma che questo numero potrebbe addirittura raddoppiare quasi ogni 20 anni, raggiungendo le 75 milioni di persone entro il 2030.
I promettenti effetti sui malati di Alzheimer
Negli Stati Uniti, ad esempio, la malattia di Alzheimer costituisce addirittura la sesta causa di morte. I ricercatori sono ormai da anni impegnati nella ricerca e nello sviluppo di trattamentisempre più specifici che possano contribuire a rallentare la progressione del disturbo e recentemente hanno scoperto che il farmaco in genere utilizzato per la il trattamento dell’ipertensione, la nilvadipina, può avere effetti positivi sul flusso sanguigno cerebrale nei soggetti malati di Alzheimer.
La nilvadipina è un farmaco che porta al rilassamento vascolare e abbassa la pressione sanguigna. L’obiettivo dello studio, che comprendeva 44 partecipanti malati di Alzheimer lieve o moderato, era scoprire se la nilvadipina potesse rallentare la progressione della malattia. “Anche se nessun trattamento medico è privo di rischi, il trattamento per l’ipertensione potrebbe essere importante per mantenere la salute del cervello nei pazienti malati di Alzheimer“, afferma il dottor Jurgen Claassen, professore presso il Radboud University Medical Center di Nijmegen , Paesi Bassi e autore principale dello studio.
Un leggero aumento del flusso sanguigno nel cervello potrebbe avere effetti benefici
I ricercatori hanno somministrato in modo casuale nilvadipina e un placebo ai partecipanti e hanno chiesto loro di continuare il trattamento per 6 mesi. Hanno poi misurato il flusso di sangue in specifiche aree del cervello, all’inizio dello studio e dopo 6 mesi. I risultati hanno mostrato un aumento del 20% del flusso sanguigno verso l’ippocampo, l’area del cervello legata alla memoria e all’apprendimento, tra il gruppo che ha assunto nilvadipina rispetto al gruppo placebo.
“Questo trattamento è promettente, in quanto non sembradiminuire il flusso di sangue al cervello, che potrebbe causare più danni che benefici“, aggiunge il dottor Claassen. In studi precedenti, un team di ricercatori ha confrontato gli effetti di nilvadipina e placebo in più di 500 persone con malattia di Alzheimer. In quel progetto, il team non ha considerato gli effetti sul flusso ematico cerebrale, quindi non ha registrato alcun beneficio della nilvadipina come trattamento.
I ricercatori statunitensi hanno scoperto un particolare ceppo di virusin grado di distruggerei batteri che si formano nelle spugne da cucina, che possono rivelarsi utili nella lotta contro batteri che non possono essere uccisi da soli antibiotici. Nello studio, i batteri sono stati utilizzati come esca per identificare due tipi di fagociti (batteri che ne mangiano altri) in grado di ingerire questo tipo di organismi.
I ricercatori hanno scambiato i due fagociti per verificare la loro capacità di infettare i batteri isolati e hanno scoperto che questi riescono ad uccidere i batteri dell’altro tipo. Confrontando il DNA di entrambi i ceppi, hanno scoperto che essi appartengono a un gruppo di microbi “a forma di bastoncello” che si trovano comunemente nelle feci. Alcuni di questi microbi potrebbero causare serie infezioni soprattutto nelle strutture ospedaliere.
Sebbene i due ceppi batterici siano strettamente correlati, i ricercatori hanno notato diverse differenze di natura chimica tra di loro durante l’esecuzione dei test biochimici, che hanno rivelato che quei fagociti non sono affatto “schizzinosi”, nutrendosi di una grande varietà di batteri. “Queste differenze sono importanti per comprendere la gamma di batteri che un fagocita può consumare, il che è anche la chiave per determinare la sua capacità di trattare infezioni specifiche resistenti agli antibiotici“, ha detto Weiss.
In una nuova indagine sul sottofondo marino al largo della costa nord-orientale degli Stati Uniti, gli scienziati hanno fatto una scoperta sorprendente: diverse falde acquifere di acqua relativamente fresca intrappolate in sedimenti porosi che si trovano sotto l’oceano salato. Sembra essere la più grande tale formazione ancora trovata nel mondo.
La falda si estende dalla riva almeno dal Massachusetts al New Jersey, estendendosi più o meno continuamente a circa 50 miglia fino al bordo della piattaforma continentale. Se trovato in superficie, creerebbe un lago che copre circa 15.000 miglia quadrate. Lo studio suggerisce che tali falde acquifere si trovano probabilmente in molte altre coste in tutto il mondo e potrebbero fornire acqua di cui c’è disperatamente bisogno per le aree aride che sono attualmente in pericolo di esaurimento.
Scoperte diverse falde acquifere al largo degli Stati Uniti
I ricercatori hanno utilizzato misure innovative di onde elettromagnetiche per mappare l’acqua, che è rimasta invisibile ad altre tecnologie. “Sapevamo che c’era acqua fresca laggiù in luoghi isolati, ma non conoscevamo l’estensione o la geometria”, ha detto l’autore principale Chloe Gustafson, un dottorato di ricerca. candidato all’Osservatorio Terra Lamont-Doherty della Columbia University. “Potrebbe rivelarsi una risorsa importante in altre parti del mondo.” Lo studio appare questa settimana nella rivista Scientific Reports.
Le prime avvisaglie della falda si sono verificate negli anni ’70, quando le compagnie hanno interrato la linea di costa per il petrolio, ma a volte invece hanno colpito l’acqua dolce. I fori sono solo punture di spillo nel fondo marino, e gli scienziati hanno discusso se i depositi d’acqua fossero solo tasche isolate o qualcosa di più grande. A partire da circa 20 anni fa, il coautore dello studio Kerry Key, ora un geofisico di Lamont-Doherty, ha aiutato le compagnie petrolifere a sviluppare tecniche per utilizzare l’imaging elettromagnetico del sottofondo marino per cercare il petrolio. Più recentemente, Key ha deciso di verificare se una qualche forma della tecnologia potesse essere utilizzata anche per trovare depositi di acqua dolce. Nel 2015, lui e Rob L. Evans dell’istituzione oceanografica Woods Hole hanno trascorso 10 giorni sulla nave da ricerca Lamont-Doherty Marcus G. Langseth effettuando misurazioni al largo del New Jersey meridionale e sull’isola del Massachusetts Martha’s Vineyard, dove i fori sparsi avevano colpito fresco, sedimenti ricchi di acqua.
Ogni tanto ci dimentichiamo che su Marte è presente il rover Curiosity che continua a girare lentamente sulla superficie in cerca di qualcosa di nuovo. Recentemente è riuscito nell’intento ovvero imbattersi in una novità rilevante. Lo spettrometro del piccolo, neanche troppo, mezzo autonomo ha riscontrato una grosso giacimento di metano. È stato registrato un piccolo di valore che superava le 21 parti per miliardo di volume, o ppbv; la media del pianeta rosso è di 10 ppbv quindi si può dire che è una quantità tanto più alta.
Il luogo del ritrovamento non poteva che essere il cratere Gale ovvero la regione in cui il rover è atterrato nel 2012 e che sta esplorando da allora. La scoperta in sé è importante perché il metano può essere prodotto da organismi viventi e una percentuale di concentrazione del genere può indicare qualcosa, per l’appunto; ovviamente non è l’unica fonte, ma almeno c’è una speranza.
Marte e il metano
Questo elemento è uno dei tanti misteri del pianeta. Nel corso degli anni è stato rivelato più volte, sia con i lander che rover, ma anche con i satelliti. Il Metano sembra comparire e sparire nel giro di poco e a volte sembra che siano delle vere e proprie tempeste. Come detto questo rilevamento va approfondito anche perché se incrociamo i dati con la Terra, tale concentrazione non è niente di eclatante. Sul nostro pianeta, nell’atmosfera, la concentrazione è di circa 1.800 ppbv, la maggior parte è dovuta agli organismi viventi, ma anche quelli deceduti; è tra i peggiori gas serraquindi non c’è molto di cui festeggiare
I Girasoli è uno dei dipinti più famosi del Van Gogh Museum di Amsterdam. Nonostante sia molto famoso, l’immagine nasconde ancora alcuni segreti. La galleria d’arte olandese ha studiato l’opera per anni. Solo pochi mesi fa, e in seguito a questa analisi, il centro ha decretato che non sarebbe stato nuovamente prestato, poiché variazioni di temperatura, umidità e vibrazioni di trasporto avrebbero potuto danneggiare seriamente il capolavoro.
Un team guidato da Ella Hendriks, un professore di conservazione presso l’Università di Amsterdam, ha studiato ogni centimetro del dipinto utilizzando una combinazione di microanalisi spettroscopica e tecniche non invasive tra cui ultravioletti, infrarossi, luce visibile e tecnologia dei fulmini.
Ora, come riporta Artnet, sono già note molte delle scoperte che hanno interessato a lungo lo studio de “I girasoli”, realizzati con tecnologie all’avanguardia nel mondo dell’arte.
La ricerca
Le scansioni eseguite sul dipinto hanno rivelato l’esistenza di due impronte digitali nella parte superiore del lavoro. Secondo Ella Hendriks, la cosa più logica è che l’impronta digitale appartiene a Van Gogh stesso.
Dopo aver iniziato il dipinto, Van Gogh deve aver pensato che la tela fosse troppo piccola per il dipinto. Per questo motivo, ha inchiodato una striscia di legno sulla parte posteriore per aumentare la superficie disponibile per la pittura.
Il quadro ha subito diversi restauri nel corso della sua storia. Ad esempio, le vernici applicate nella prima metà del XX secolo, che oggi ingialliscono l’aspetto del dipinto e non possono essere eliminate, sono state fuse in più parti con lo stesso dipinto.
È noto che il restauratore olandese Jan Cornelis Traas ha lavorato alla pittura nel 1927 e nel 1961, ma non si sapeva molto su quello che ha realizzato, perché non ha tenuto traccia del processo.
Dopo aver riesaminato il lavoro con le nuove tecnologie, il team ha determinato che la vernice è stata rivestita con una nuova passata nel 1927, che è stata successivamente rimossa. È stato verniciato due volte nel 1961. La verniciatura dei dipinti del XIX secolo non sarebbe stata realizzata oggi, ma era “molto tipica” nel 20° secolo.
Alla fine degli anni ’90, la vernice ha ricevuto un rivestimento di resina di cera per proteggere la superficie della vernice. Questa cera, che nel tempo divenne leggermente bianca, fu rimossa durante il recente trattamento di conservazione.
Ci sono altri famosi “I girasoli” di Van Gogh e uno realizzato con i dipinti di questa serie. In questo studio, il quadro del Van gogh Museum è stata confrontata con quella della National Gallery, a Londra. Ci sono variazioni sulla tavolozza e il tratto dell’artista è completamente diverso. Secondo Hendricks, Van Gogh avrebbe cercato di migliorare i suoi fiori.
Il Sud America è luogo particolare. Il fatto che sia ricoperto per gran parte da foreste fa si che alcuni luoghi risultato essere ancora inesplorati. Molti misteri aleggiano intorno a questi polmoni verdi e tra questi c’è quello della Città Bianca. Chiamata Ciudad Blanca dalle popolazioni locali, si tratta di una leggenda che vede la presenza di un insediamento leggendario nascosto tra le foreste pluviali dell’Honduras. Per molto tempo si è dubitato della presenza di tale luogo, ma in realtà esiste solo che non risulta essere così mistico come si pensa, o forse no.
Quello che sta affascinando i ricercatori non sono gli edifici sparsi per una grossa fetta di foresta poco conosciuta nota come La Mosquita, ma è piuttosto l’ecosistema. Si potrebbe considerarlo come un santuario naturale al cui interno sono presenti centinaia di specie animali e vegetali.
La Città Bianca: un santuario naturale
Ecco una dichiarazione della biologa Trond Larsen: “Ciò che abbiamo scoperto è una biodiversità estremamente elevata nel contesto dell’America centrale, tra cui molte specie rare e in pericolo e nuovi record nazionali. Tutto ciò indica che l’area è una natura incontaminata che deve essere preservata per mantenere l’integrità dei corridoi ecologici attraverso l’America centrale.”
Il bottino, se così possiamo chiamarlo, è di 180 specie di piante, oltre 200 di insetti e quasi 200 di uccelli a cui vanno sommati comunque ritrovamenti di pesci, mammiferi di piccoli dimensioni e alcuni di grande e tanto altro. Il punto che rende questa storia particolare è che molti di questi risultano essere rari e alcuni anche in via di estinzione.
Forse l’insediamento legato a tale città rimane ancora un mistero, ma quello che l’habitat non lo è più. La minaccia maggiore al momento, considerato che è un luogo dove i processi ecologici ed evolutivi sono rimasti intatti, è l’uomo. Larsen: “Probabilmente la minaccia principale in questo momento è l’invasione della deforestazione illegale per l’allevamento del bestiame.“
La materia oscura ha, sin dalla formulazione della sua teoria, attirato molto gli astrofisici, i quali cercano di determinare da sempre, la natura di questa ipotetica componente della materia. Un parte della materia che compone lo spazio che non è in grado di emettere radiazioni elettromagnetiche e che può essere rilevata solo indirettamente, tramite i suoi effetti gravitazionali.
Fu per la prima volta ipotizzata per spiegare le osservazioni gravitazionali sperimentali, ed in base alle quali essa costituirebbe circa il 90% della massa dell’Universo. Inoltre la materia oscura sarebbe la principale responsabile dell’espansione dell’Universo.
Nuove e vecchie teorie sulla composizione della materia oscura
Fino ad ora la teoria più accreditata sulla sua composizione, si basa su particelle subatomiche chiamate WIMP (Weakly Interacting Massive Particle). Si tratta di particelle ipotetiche dotate di massa, che interagiscono debolmente con la materia normale solo tramite la gravità e l’interazione debole. Le WIMP fanno quindi parte della materia oscura, e sono caratterizzate da assenza di carica elettrica e nessuna carica di colore. Devono essere inoltre delle particelle massive, quindi non relativistiche ed interagiscono solo tramite interazione debole.
Oltre alla teoria delle WIMP però, i ricercatori continuano a proporre nuove teorie, tra cui quella del monopolo magnetico oscuro che interagisce con un fotone oscuro. I ricercatori hanno ipotizzato questa particella facendola comportare come il singolo polo di un magnete. Si tratta dunque di una particella ipotetica, mai osservata e proposta solo da modelli teorici quantistici. Questi monopoli interagirebbero con i fotoni e gli elettroni oscuri analogamente a come essi interagiscono, secondo i modelli, con i fotoni e gli elettroni “normali”.
Il segreto è nei diamanti, perfetti e cono atomi leggeri
Secondo un’altra recente ricerca invece, la chiave per comprendere la natura della materia oscura potrebbe celarsi nei preziosi e perfetti diamanti. Nelle analisi condotte in questo studio sembrerebbe che, raffreddando i diamanti ad una temperatura vicina allo zero assoluto (-273,15 °C), si potrebbero rilevare, tramite speciali sensori, le onde sonore che emetterebbe la materia oscura schiantandosi contro il nucleo atomico od un elettrone del diamante.
Questo metodo era già stato utilizzato in passato su altri materiali come il germanio ed il silicio. Ma i diamanti sembrano essere dei candidati migliori per questo tipo di esperimenti, grazie alla loro purezza e alla leggerezza dei loro atomi. Queste caratteristiche rendono infatti più semplice la misurazione delle onde sonore e delle vibrazioni emesse potenzialmente da eventuali particelle di materia oscura, almeno secondo quanto dichiarato dal coautore dello studio, il fisico del FermiLab, Noah Kurinsky.
Per quest’oggi la NASA ha messo in programma una missione veramente particolare ovvero il lancio nello spazio di un orologio atomico. Ovviamente questa parola potrebbe suonare particolare, ma in realtà sono una tipologia di dispositivi già ampiamente utilizzati, sopratutto per le missioni spaziali. Detto questo, tale nuovo orologio risulta essere fino a 50 volte più preciso di quelli presenti nei satelliti usati per i GPS. Nonostante la sua dimensione, appena quella di un tostapane, l’errore stimato è di un secondo ogni 10 milioni di anni.
A corsa questa precisione? A migliorare i viaggi spazialie annesse missioni. Il suo nome è Deep Space Atomic Clock e per quanto raggiungerà l’orbita solo di recente la sua utilità inizierà a farsi sentire dall’anno prossimo. Per il lancio è previsto l’ormai noto razzo di SpaceX ovvero il Falcon Heavy e l’orologio raggiungerà la distanza di ben 720 chilometri, una distanza quasi doppia dalla Terra rispetto a quella della Stazione Spaziale Internazionale.
La NASA e il nuovo orologio atomico
La precisione del dispositivo permetterà una maggiore precisione delle posizione dei veicoli spaziali. La sua tecnologia è basata su atomi di mercurio, una tecnologia ben diversa dagli altri orologi atomici tipici ovvero quelli caricati con atomi di cesio e di rubidio. I primi sono una tecnologia più recente, sono stati sviluppati per la prima circa vent’anni fa, mentre i secondi esistono già dagli anni ’50.
Il nuovo gioiello della NASA sarà essenziale per un nuovo capitolo dell’esplorazione spaziale in quanto sarà possibile sfruttarlo per gestire più segnali alla volta in un modo più veloce e preciso di prima.