Ogni anno migliaia di persone muoiono dissanguate prima di ricevere soccorso. L’impossibilità di trasportare sangue in modo pratico e duraturo ha rappresentato finora un limite fatale. Ora però, grazie alla ricerca americana, questo ostacolo potrebbe essere superato.
Un team della facoltà di medicina dell’Università del Maryland, a Baltimora, ha sviluppato un sangue artificiale in forma di polvere, facilmente conservabile e utilizzabile sul campo. Potrebbe rappresentare una svolta epocale per ambulanze, pronto soccorso e missioni militari.
Come funziona il nuovo sangue artificiale
Il principio alla base è l’utilizzo dell’emoglobina, la proteina che trasporta ossigeno nel nostro corpo. Gli scienziati la estraggono dal sangue donato e la racchiudono in una bolla di grasso, creando una sorta di globulo rosso sintetico. Questa capsula protettiva evita le reazioni tossiche che hanno compromesso i tentativi precedenti.
Il prodotto così ottenuto viene liofilizzato, cioè trasformato in una polvere stabile che può essere conservata per anni e ricostituita con acqua in meno di un minuto.
Primo successo sperimentale e prossimi passi
Il primo esperimento condotto su un coniglio ha dato esito positivo. Il team guidato dal dottor Allan Doctor è convinto che questa tecnologia potrà salvare vite dove oggi non è possibile intervenire in tempo.
Il Dipartimento della Difesa USA ha già investito oltre 58 milioni di dollari per sostenere lo sviluppo del progetto, destinato a potenziare sia il sistema sanitario civile sia quello militare.
Entro due anni i primi test sull’uomo
Anche se promettente, il sangue artificiale dovrà ancora dimostrare sicurezza ed efficacia clinica davanti alla FDA. I primi test su volontari umani potrebbero iniziare già entro il 2027.
Se l’approvazione arriverà, potremo presto assistere a un cambiamento radicale: sangue salvavita, sempre pronto e ovunque, dalla polvere alla trasfusione in pochi istanti. Una speranza concreta per emergenze, incidenti e conflitti.
Il Synology DS425+ rappresenta una soluzione NAS avanzata pensata per professionisti, piccole e medie imprese, nonché per utenti domestici esigenti. Questo modello, lanciato nel 2025, appartiene alla gamma “Plus” di Synology e si distingue per un ottimo equilibrio tra prestazioni hardware, flessibilità software e un’integrazione efficace con l’ecosistema DiskStation Manager (DSM). In questa recensione approfondiremo ogni aspetto, dal design alle specifiche tecniche, dall’esperienza d’uso quotidiana alle prestazioni in scenari reali, fino al sistema operativo.
Design e costruzione
Il DS425+ sfoggia un design sobrio e compatto, perfetto per ambienti professionali o domestici. Le dimensioni sono contenute, pari a 166 mm di altezza, 199 mm di larghezza e 223 mm di profondità, mentre il peso è di circa 2,18 kg senza dischi. La scocca è realizzata in plastica rigida resistente, con una finitura nera opaca e linee squadrate che ne sottolineano la robustezza. Il dispositivo è dotato di quattro bay frontali per dischi da 3,5 o 2,5 pollici, che supportano la rimozione a caldo (hot-swap) e sono protetti da una cover rimovibile. Sul retro si trovano due ventole da 92 mm con controllo termico, che mantengono temperature operative ottimali garantendo un livello sonoro contenuto intorno a 21,6 dB(A), adatto anche a uffici e ambienti silenziosi.
Specifiche tecniche
Al centro del DS425+ c’è il processore Intel Celeron J4125, un quad-core con frequenza base di 2,0 GHz e modalità burst fino a 2,7 GHz, caratterizzato da un consumo energetico contenuto con un TDP di 10 watt. Questo SoC appartiene alla famiglia Gemini Lake Refresh ed è prodotto con tecnologia a 14 nm, integrando anche la GPU Intel UHD 600. La memoria RAM è di 2 GB DDR4 non-ECC, saldata sulla scheda madre, ma è presente uno slot SODIMM aggiuntivo che permette l’espansione fino a 6 GB complessivi.
Il comparto storage offre quattro alloggiamenti interni SATA, compatibili con dischi rigidi e SSD da 3,5 o 2,5 pollici. Sono inoltre disponibili due slot dedicati per SSD M.2 2280 NVMe, ideali per configurazioni di cache SSD o, con DSM 7.2, per creare storage pool basati esclusivamente su SSD. È importante sottolineare che l’utilizzo degli slot NVMe è limitato a modelli di SSD certificati da Synology, condizione da valutare in fase di acquisto. La capacità massima teorica di storage arriva fino a 80 TB usando dischi da 20 TB in ogni bay. Il NAS supporta numerosi livelli di RAID, tra cui RAID 0, 1, 5, 6, 10, JBOD, Basic e SHR, permettendo un bilanciamento personalizzato tra prestazioni e ridondanza.
Per la connettività, il DS425+ offre una porta di rete Ethernet da 2.5 GbE, affiancata da una porta Gigabit e due porte USB 3.2 Gen 1 per periferiche esterne. L’alimentazione è fornita da un alimentatore esterno da 90 W.
Esperienza d’uso
L’installazione e la configurazione del DS425+ sono semplici e immediate. Al primo avvio, il sistema operativo DiskStation Manager (DSM) accompagna l’utente attraverso un setup guidato accessibile via browser, con un’interfaccia fluida e moderna. Il design dell’interfaccia utente è intuitivo anche per i meno esperti, pur offrendo strumenti avanzati per utenti professionali. La dashboard consente di monitorare in tempo reale le risorse di sistema come CPU, RAM, temperatura, stato dei volumi e delle ventole, fornendo un controllo completo sullo stato del NAS.
Il Package Center integrato permette di ampliare rapidamente le funzionalità del dispositivo, trasformandolo in un vero e proprio hub multifunzione. Il DS425+ può svolgere il ruolo di server di file, mail server, media server o ambiente centralizzato per backup. La gestione degli utenti e dei permessi è robusta, con supporto per LDAP, ACL e integrazione con Active Directory, rendendo il NAS adatto anche a contesti aziendali complessi.
Prestazioni in scenari reali
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Nel test con una rete cablata da 2.5 GbE configurata in RAID 5, il DS425+ ha raggiunto velocità di trasferimento sequenziali molto elevate, intorno a 278 MB/s in lettura e 281 MB/s in scrittura. L’attivazione della cache SSD migliora sensibilmente le prestazioni con file di piccole dimensioni e carichi di lavoro su database leggeri, ottimizzando la reattività generale. L’efficienza nelle operazioni di backup è elevata, grazie all’integrazione con il pacchetto Active Backup for Business, che sfrutta funzionalità avanzate come la deduplicazione e gli snapshot Btrfs per ridurre lo spazio occupato e migliorare la sicurezza dei dati.
In ambito multimediale, il DS425+ è valido come server Plex o DLNA per lo streaming di contenuti, anche se la capacità di transcodifica in tempo reale fino a 4K è limitata dall’integrato grafico della CPU. La piattaforma di videosorveglianza Surveillance Station funziona senza problemi, supportando fino a 40 canali di telecamere con registrazione in H.265 a 1080p e offrendo 2 licenze gratuite per iniziare.
Sistema operativo DSM
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Il cuore dell’esperienza Synology è il sistema operativo DiskStation Manager 7.2, basato su Linux e progettato per offrire una GUI moderna, reattiva e sicura. DSM si aggiorna regolarmente, con miglioramenti costanti nelle funzionalità e nella sicurezza. Tra le applicazioni di punta figurano Synology Drive, per la sincronizzazione di file, Synology Office, Moments per la gestione foto, Chat per la comunicazione interna, Calendar, Active Backup for Business e Virtual Machine Manager, che consente la creazione di macchine virtuali Linux o Windows, oppure istanze virtuali di DSM, con una licenza inclusa.
Le funzionalità avanzate comprendono la possibilità di gestire fino a 256 snapshot Btrfs per volume, replica remota dei dati, quote utente per controllare lo spazio, crittografia AES a 256 bit, certificati HTTPS, autenticazione a due fattori e firewall integrato. Inoltre, con Active Insight è possibile monitorare centralmente più dispositivi NAS tramite il cloud, ricevendo report e avvisi in tempo reale.
Scenari d’uso avanzati e suggerimenti di configurazione
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Il DS425+ è particolarmente indicato per ambienti dove la gestione dati richiede elevata flessibilità e sicurezza, come studi tecnici, uffici di professionisti IT, piccoli team di creativi e microimprese. Un esempio avanzato di utilizzo è la configurazione di un ambiente di backup centralizzato con Active Backup for Business, che consente di proteggere dati da più PC, server fisici e macchine virtuali in modo efficiente grazie alla deduplicazione.
Per chi lavora con database o file server, la combinazione del Synology DS425+5 con una cache SSD M.2 NVMe migliora notevolmente la reattività, soprattutto con carichi di lavoro caratterizzati da molti accessi casuali. In ambito multimediale, il DS425+ può essere configurato come server Plex per lo streaming locale, anche se la transcodifica è consigliabile solo per file non troppo pesanti o per dispositivi client compatibili con il formato nativo.
Un’ulteriore configurazione suggerita è l’integrazione con ActiveDirectory, che semplifica la gestione degli accessi in contesti aziendali. Infine, sfruttare la funzione snapshot Btrfs permette di proteggere i dati da cancellazioni accidentali o ransomware, soprattutto in configurazioni di file sharing collaborativo.
Considerazioni finali
Il Synology DS425+è un NAS che si colloca in una fascia di mercato destinata a utenti che necessitano di prestazioni elevate e versatilità. Il processore Intel CeleronJ4125 è sufficientemente potente per garantire fluidità in molteplici scenari, dalla condivisione file ai backup avanzati, fino a compiti di virtualizzazione leggera. L’espandibilità della RAM e il supporto per cache SSD offrono margini di miglioramento per chi ha esigenze più complesse.
Tuttavia, alcune limitazioni vanno tenute presenti: la RAM saldata limita la memoria massima espandibile a 6 GB, gli SSD NVMe devono essere certificati da Synology, e l’assenza di link aggregation può rappresentare un limite in ambienti ad altissima richiesta di banda. Nonostante ciò, il DS425+ si presenta come una soluzione affidabile, silenziosa e con un sistema operativo tra i più completi attualmente disponibili sul mercato.
In definitiva, il DS425+ è una scelta eccellente per piccoli uffici, professionisti IT e creativi che vogliono un NAS performante, versatile e facile da gestire.
Il Pianeta Rosso e la nostra mente: una lunga storia di illusioni
Dal “volto di Marte” immortalato dalla sonda Viking 1 nel 1976 alle più recenti “porte marziane” o “rocce-zebra”, il Pianeta Rosso continua a stimolare l’immaginario collettivo. Ogni volta che un’immagine curiosa arriva dallo spazio, l’umanità sembra cercare tracce della propria presenza, anche dove non ci sono.
Ma cosa vediamo davvero? E perché?
Pareidolia: quando il cervello collega puntini inesistenti
Quello che accade si chiama pareidolia, un fenomeno psicologico molto comune. Si tratta della tendenza del cervello umano a riconoscere forme familiari – volti, animali, oggetti – in elementi casuali, come nuvole, ombre o rocce. È un meccanismo evolutivo che ci aiuta a individuare rapidamente ciò che può rappresentare un volto umano, ad esempio per riconoscere emozioni o pericoli.
Sullo sfondo di Marte, con le sue luci taglienti e le geometrie insolite, questo fenomeno si amplifica.
Marte: il catalogo delle illusioni
Dalla “faccia di Cydonia” – una collina piatta scambiata per un volto umano – fino alla più recente Zebra Rock, scattata dal rover Perseverance nel cratere Jezero, ogni dettaglio diventa potenzialmente “qualcos’altro”.
Nel 2022, ad esempio, una formazione geologica simile a una porta fece ipotizzare l’esistenza di un tempio alieno. In realtà era il frutto di erosione naturale e giochi d’ombra. Lo stesso vale per i cosiddetti “ragni di Marte”, formazioni osservate al polo sud e causate dal gas che fuoriesce da sotto la superficie di ghiaccio secco.
Fantasia e scienza possono convivere
Sebbene la scienza abbia smentito ogni illusione, queste immagini continuano ad affascinarci. Perché? Perché ci raccontano quanto abbiamo bisogno di vedere noi stessi anche nei luoghi più remoti. E, in un certo senso, ci avvicinano all’Universo.
Alla fine, forse non troveremo alieni su Marte. Ma troveremo qualcosa di altrettanto misterioso: noi stessi.
Ozempic, il farmaco a base di semaglutide nato per il trattamento del diabete di tipo 2, è diventato celebre anche per un effetto “collaterale” molto apprezzato: la perdita di peso. In pochi mesi, è stato adottato da milioni di persone nel mondo, anche non diabetiche, come soluzione rapida al sovrappeso. Ma l’entusiasmo iniziale nasconde una realtà più complessa: cosa succede quando si smette di prenderlo?
Secondo diversi studi, tra cui uno pubblicato su Diabetes, Obesity and Metabolism, chi interrompe l’assunzione di Ozempic tende a riprendere rapidamente il peso perso. Questo accade perché il farmaco agisce sul cervello riducendo l’appetito e rallentando lo svuotamento gastrico, ma questi effetti cessano una volta sospesa la terapia. Il corpo torna gradualmente ai livelli precedenti di fame e metabolismo.
Dimagrire con Ozempic: efficace ma non per sempre
Molti pazienti riferiscono un aumento dell’appetito già nelle prime settimane dopo la sospensione, con un ritorno delle vecchie abitudini alimentari. Senza un supporto nutrizionale e psicologico adeguato, mantenere i risultati raggiunti diventa molto difficile. In alcuni casi, si può persino assistere a un effetto “rimbalzo”, con un aumento di peso superiore a quello iniziale.
Inoltre, Ozempic non è una cura miracolosa: il farmaco funziona al meglio se affiancato a uno stile di vita sano, attività fisica regolare e una dieta equilibrata. Senza queste basi, i risultati tendono a essere temporanei. L’illusione di una soluzione facile al problema del peso può scoraggiare chi ha bisogno di un cambiamento più profondo e duraturo.
Dal punto di vista medico, l’uso a lungo termine di Ozempic è ancora oggetto di studio, soprattutto per chi non è diabetico. Alcuni esperti avvertono che potrebbe non essere sostenibile assumere un farmaco iniettabile per tutta la vita solo per mantenere il peso. Inoltre, ci sono possibili effetti collaterali come nausea, problemi gastrointestinali e, in rari casi, pancreatite.
Evitare una dipendenza psicologica dal farmaco
Chi decide di interrompere Ozempic dovrebbe farlo sotto controllo medico, con un piano ben definito per la gestione del peso. Questo può includere un’alimentazione su misura, un programma di esercizio fisico e magari il supporto di uno psicologo o di un dietologo. L’obiettivo è evitare una dipendenza psicologica dal farmaco e favorire una relazione sana con il cibo.
La storia di Ozempic dimostra quanto sia potente il legame tra farmaci e aspettative sociali: la pressione per perdere peso velocemente è spesso più forte del desiderio di salute a lungo termine. Tuttavia, come sottolineano molti endocrinologi, la vera sfida non è dimagrire, ma mantenere il risultato nel tempo — e questo richiede ben più di una semplice iniezione.
In conclusione, Ozempic può rappresentare un aiuto prezioso per alcune persone, ma non è la soluzione definitiva al sovrappeso. Smettere di assumerlo senza un piano concreto porta spesso a un ritorno alla situazione iniziale. Il messaggio chiave è che il dimagrimento duraturo richiede tempo, impegno e un approccio integrato, in cui il farmaco può essere solo una parte del percorso.
Nel cuore di una delle più antiche civiltà della storia, la Mesopotamia, una storia sorprendente è riemersa dopo millenni. Si tratta di un mito sumero rimasto nascosto per oltre 4.000 anni, inciso su una tavoletta d’argilla danneggiata e dimenticata in un archivio. Il testo racconta una missione di salvataggio audace e simbolica: una volpe, simbolo di astuzia e coraggio, scende negli inferi per liberare il dio della tempesta.
La scoperta è frutto del lavoro della sumerologa Jana Matuszak, dell’Università di Chicago, che ha ricostruito con pazienza il racconto da un frammento rinvenuto nel XIX secolo nella città sacra di Nippur, nel sud dell’Iraq attuale.
Il dio Ishkur prigioniero e l’assenza della pioggia
Il protagonista divino del mito è Ishkur, dio della tempesta, poi conosciuto come Adad. La narrazione lo presenta prigioniero nel regno dei morti, il Kur, privando la terra della sua forza vitale: la pioggia. In sua assenza, il mondo si spegne. I bambini non nascono più, la carestia incombe. È una metafora potente della siccità e della ciclicità della natura.
Quando gli dèi Anunnaki vengono chiamati a salvare Ishkur, nessuno si fa avanti. Solo una volpe accetta la sfida.
La volpe inganna gli inferi: un’eroina inaspettata
Con astuzia, la volpe accetta le offerte rituali — pane e acqua — ma invece di consumarle, le conserva. Grazie a questo stratagemma riesce a penetrare nel mondo dei morti. Purtroppo il testo si interrompe prima che si conosca l’esito della missione, lasciando in sospeso il finale. Ma il valore simbolico della narrazione è evidente: la salvezza può venire da dove meno ci si aspetta.
Un frammento che parla ancora oggi
Il mito ritrovato si inserisce nel filone universale delle storie di discesa e rinascita, mostrando come anche nell’antichità gli esseri umani cercassero spiegazioni poetiche ai misteri della natura. La figura della volpe, insolita protagonista, rivela quanto la narrazione mitica potesse essere fluida, sperimentale e sorprendentemente moderna.
Una lezione antica, tornata a galla per ricordarci che anche nei reperti dimenticati si nasconde ancora una voce da ascoltare.
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Per molti proprietari di gatti, la sola idea di fare un bagno al proprio micio è una missione impossibile. Artigli sguainati, miagolii disperati e fughe improvvise sembrano confermare una verità universale: i gatti odiano l’acqua. Ma è davvero così? E soprattutto, perché? Dietro questo comportamento si nasconde una combinazione di fattori evolutivi, sensoriali e comportamentali che meritano di essere esplorati.
Dal punto di vista evolutivo, la maggior parte delle razze domestiche discende dal gatto selvatico africano, un felino abituato a vivere in ambienti aridi e secchi, dove l’acqua non era una presenza frequente. Di conseguenza, non si è mai sviluppata una familiarità con il nuoto o con l’idea di bagnarsi, a differenza di altri animali come cani o lontre, le cui specie progenitrici vivevano in ambienti acquatici.
Avversione felina all’acqua: cause, curiosità e consigli utili
Un altro fattore importante è la sensibilità del pelo felino. Quando si bagna, il mantello del gatto perde le sue proprietà isolanti e diventa pesante e scomodo, provocando una sensazione di disagio. Inoltre, un pelo intriso d’acqua impiega molto tempo per asciugarsi, esponendo l’animale al rischio di raffreddarsi, specie in ambienti domestici con aria condizionata o poca ventilazione.
I gatti, notoriamente amanti del controllo e della pulizia, provano spesso ansia quando si trovano in una situazione imprevista come un bagno. L’acqua, elemento instabile e difficilmente controllabile, mina la loro sensazione di sicurezza e li mette in allerta. Per questo motivo, anche una semplice goccia può risultare fastidiosa, se inattesa.
Non tutti i gatti, però, reagiscono allo stesso modo. Alcune razze come il Turkish Van, il Maine Coon o il Bengala sembrano avere un rapporto più rilassato con l’acqua, probabilmente per ragioni genetiche e per una socializzazione precoce più ampia. Anche l’esperienza individuale gioca un ruolo cruciale: un gatto abituato sin da piccolo al contatto con l’acqua potrebbe non sviluppare la tipica avversione.
Non detestano necessariamente tutta l’acqua
Va anche detto che i gatti non detestano necessariamente tutta l’acqua. Molti amano osservare l’acqua che scorre da un rubinetto, bere da fontanelle o giocare con gocce e spruzzi. In questi casi, l’interazione è volontaria e non invasiva, quindi non suscita ansia. È la sensazione del bagnarsi completamente, spesso forzata, che innesca la reazione negativa.
Per chi ha la necessità di lavare il proprio gatto, magari per motivi medici o igienici, è fondamentale agire con calma, pazienza e gradualità. Usare acqua tiepida, evitare getti diretti e preferire una spugna o un panno umido può rendere l’esperienza meno traumatica. In alternativa, esistono shampoo secchi e salviette specifiche che evitano il contatto diretto con l’acqua.
In definitiva, l’avversione dei gatti per l’acqua non è capriccio, ma una reazione logica basata su istinto, biologia e abitudini. Capire le ragioni dietro questo comportamento ci aiuta non solo a rispettare la natura felina, ma anche a gestire meglio la convivenza con i nostri amici a quattro zampe.
Una barca scolpita nella roccia e una figura seduta con il mento allungato. Sono questi i protagonisti di una straordinaria scoperta archeologica che potrebbe cambiare le nostre conoscenze sull’origine del potere faraonico. Il pannello, rinvenuto ai margini del deserto egiziano, è stato recentemente analizzato da un’équipe internazionale guidata dall’egittologo Dorian Vanhulle e pubblicato sulla rivista Antiquity.
Secondo lo studio, l’incisione risale alla transizione tra il periodo protodinastico e la Prima Dinastia, cioè prima ancora della costruzione delle piramidi. Un’epoca ancora in parte avvolta nel mistero, in cui si gettavano le fondamenta di uno dei più potenti regni della storia.
Simboli di potere prima dei faraoni
Il pannello rupestre presenta una barca stilizzata, uno dei simboli più antichi e ricorrenti della cultura egizia. Accanto ad essa, una figura seduta con un mento marcatamente allungato, che potrebbe rappresentare un sovrano dotato di barba posticcia, tipico attributo regale.
«Le barche sono tra i motivi più frequenti nell’iconografia egizia primitiva», spiega Vanhulle. «In questo caso, l’immagine sembra legata a un messaggio politico».
Il livello di dettaglio e la qualità dell’incisione suggeriscono infatti che non si tratti di un’opera spontanea, ma piuttosto di una commissione da parte di un’autorità politica locale.
L’arte rupestre come strumento di potere
Per gli studiosi, questa scoperta è molto più di una testimonianza artistica: rappresenta una dichiarazione di potere scolpita nella pietra. In un’epoca in cui lo stato egiziano era ancora in formazione, l’arte rupestre poteva servire a legittimare il controllo di un’élite emergente sul territorio.
«Questa incisione è una testimonianza precoce di come l’immagine e il simbolo venissero usati per costruire l’identità del potere», spiega Vanhulle.
Il paragone con rappresentazioni successive, come la celebre Tavoletta di Narmer, conferma l’ipotesi di una continuità simbolica tra le prime élite predinastiche e i faraoni dell’Antico Regno.
Un patrimonio da proteggere
La scoperta, però, arriva con un grido d’allarme. L’area desertica dove si trovano queste incisioni è oggi minacciata da attività estrattive e urbanizzazione incontrollata. Vanhulle sottolinea l’urgenza di interventi di tutela: «Siti come questo rischiano di andare perduti per sempre. Servono missioni di salvataggio e politiche di conservazione attiva».
Mentre la sabbia del deserto continua a nascondere tracce di un passato ancora in parte sconosciuto, questa incisione offre una finestra preziosa su un momento cruciale della storia egiziana: la nascita dello Stato e del mito faraonico.
Anche quando il corpo riposa profondamente, il cervello continua a lavorare incessantemente. Durante il sonno, elabora ricordi, regola emozioni e si rigenera. Ma secondo recenti ricerche neuroscientifiche, il cervello addormentato potrebbe rivelare molto di più: segnali nascosti di disturbi neurologici o psichiatrici, spesso invisibili durante la veglia.
Il sonno come specchio della salute mentale
Diversi studi dimostrano che le onde cerebrali, le fasi REM e i micro-risvegli notturni possono indicare la presenza di condizioni come depressione, ansia, schizofrenia o disturbo bipolare. Analizzando i tracciati dell’attività cerebrale durante il sonno, i ricercatori sono riusciti a individuare schemi alterati associati a patologie specifiche.
Una nuova arma contro l’Alzheimer
Uno degli ambiti più promettenti è la diagnosi precoce dell’Alzheimer. Alcuni biomarcatori della malattia, come la riduzione dell’attività nelle onde lente del sonno profondo, possono comparire anni prima dei sintomi evidenti. Monitorare il cervello addormentato potrebbe dunque offrire un vantaggio cruciale per intervenire in anticipo.
Epilessia notturna: il caso più evidente
Nel caso dell’epilessia, il legame con il sonno è diretto e ben documentato. Molti attacchi epilettici si manifestano proprio durante il riposo notturno. Grazie a nuovi dispositivi di neuro-monitoraggio, oggi è possibile osservare l’attività elettrica del cervello anche durante la notte, facilitando la diagnosi in pazienti che di giorno appaiono asintomatici.
Intelligenza artificiale e sonno: un’alleanza vincente
L’introduzione dell’intelligenza artificiale nello studio del sonno sta accelerando enormemente i progressi. Algoritmi avanzati sono in grado di analizzare enormi quantità di dati provenienti da elettroencefalogrammi notturni, riconoscendo pattern anomali associati a disturbi neurologici con una precisione crescente.
Il cervello emotivo sotto la lente notturna
Anche le emozioni lasciano traccia nel cervello addormentato. Nei soggetti affetti da disturbi post-traumatici, ad esempio, la fase REM mostra un’attività alterata legata all’elaborazione delle emozioni. Questo apre la strada a terapie più mirate, basate sulla regolazione del sonno per ristabilire l’equilibrio emotivo.
Una rivoluzione nella diagnosi invisibile
Tradizionalmente, molte malattie del cervello venivano individuate solo dopo la comparsa dei sintomi. Ora, grazie allo studio del cervello durante il sonno, la diagnosi può diventare preventiva. Un semplice test del sonno potrebbe un giorno far parte degli esami di routine per individuare patologie nascoste.
Il futuro: dormire per conoscersi meglio
Il sonno non è solo una pausa, ma una miniera di informazioni preziose. Con strumenti sempre più sofisticati e l’aiuto dell’IA, il cervello addormentato si sta rivelando una finestra privilegiata sulla nostra salute neurologica. Dormire, in futuro, potrebbe non solo farci bene, ma anche salvarci la vita.
Le stagioni come le conosciamo potrebbero diventare un ricordo del passato. Secondo un recente studio pubblicato su una rivista scientifica internazionale, il riscaldamento globale sta causando un’alterazione così profonda del clima terrestre da generare vere e proprie “stagioni artificiali” mai osservate prima nella storia recente del pianeta. Un fenomeno che non riguarda solo le temperature, ma l’intero equilibrio del sistema climatico globale.
Gli scienziati hanno analizzato decenni di dati climatici e satellitari, osservando che le stagioni tradizionali – primavera, estate, autunno e inverno – stanno diventando sempre meno riconoscibili. Ad esempio, l’estate si sta allungando notevolmente, mentre inverno e primavera si accorciano. In alcune aree del pianeta, si stanno manifestando periodi ibridi, con ondate di calore improvvise in pieno autunno o nevicate fuori stagione.
Stagioni artificiali: cosa sono e perché preoccupano gli scienziati
Questi cambiamenti sono la conseguenza diretta dell’aumento dei gas serra nell’atmosfera, che altera i cicli naturali dell’energia solare, della circolazione atmosferica e della distribuzione delle precipitazioni. Il risultato è una crescente instabilità stagionale, con fenomeni meteorologici estremi che sfuggono agli schemi tipici del passato.
Le cosiddette “stagioni artificiali” non sono stagioni aggiuntive, ma fasi intermedie, disordinate e imprevedibili. Ad esempio, si parla di “falsi inverni” (brevi periodi di freddo prima di un ritorno a temperature miti), oppure di “estati anticipate” che arrivano già a fine aprile. Tutto questo complica la vita di piante, animali e anche dell’uomo, con ricadute su agricoltura, salute pubblica e gestione delle risorse.
Uno degli esempi più evidenti è la fioritura precoce di molte specie vegetali, che vengono poi danneggiate da gelate fuori stagione. Anche gli insetti impollinatori si confondono, mettendo a rischio interi ecosistemi. Allo stesso modo, per l’uomo aumentano le difficoltà nel programmare colture, difendersi da malattie stagionali e affrontare eventi meteorologici estremi.
Conseguenze imprevedibili per la nostra sicurezza alimentare e ambientale
Secondo i ricercatori, se non verranno adottate misure drastiche per contenere l’aumento delle temperature globali, queste stagioni anomale diventeranno la nuova norma. Ciò significa che in futuro potremmo assistere a primavere di due settimane e a estati di cinque mesi, con conseguenze imprevedibili per la nostra sicurezza alimentare e ambientale.
Tuttavia, comprendere e monitorare l’evoluzione di queste “stagioni artificiali” può offrire anche strumenti di adattamento. Alcuni Paesi stanno già investendo in tecnologie agricole resilienti, sistemi di allerta meteorologica avanzati e nuove strategie urbanistiche per affrontare le condizioni climatiche atipiche.
In conclusione, il concetto di stagioni fisse e regolari sta lasciando il posto a un ciclo instabile e in trasformazione, modellato dall’impatto umano sul clima. La sfida sarà non solo mitigare il cambiamento, ma anche imparare a convivere con una Terra che sembra reinventare le proprie stagioni.
In un laboratorio tra i più avanzati del mondo, un sottile strato d’oro è stato portato a temperature che, secondo le teorie classiche, lo avrebbero dovuto liquefare all’istante. E invece no: è rimasto solido. Una scoperta che scuote le fondamenta della fisica dei materiali e che apre nuove domande sul comportamento della materia in condizioni estreme.
Il protagonista è l’oro, metallo nobile per eccellenza, che secondo uno studio pubblicato su Nature può resistere a una temperatura 14 volte superiore al suo punto di fusione. Parliamo di un calore che sfiora i 5000 °C, una condizione in cui qualsiasi materiale noto, almeno sulla carta, dovrebbe cedere.
Il fenomeno del surriscaldamento estremo
Quello che i ricercatori hanno osservato è un caso straordinario di surriscaldamento: una sostanza supera la temperatura in cui dovrebbe cambiare stato (da solido a liquido, o da liquido a gas) ma non lo fa, almeno temporaneamente. È come vedere un cubetto di ghiaccio che non si scioglie pur messo nel forno.
Nel caso dell’oro, l’impulso laser usato è stato così breve e mirato da non dare al metallo il tempo di riorganizzarsi e fondersi. In questo modo, l’entropia, ovvero il livello di disordine del sistema, è rimasta più bassa rispetto a quella della fase liquida. E il solido ha resistito.
Una nuova frontiera per la fisica della materia
Gli scienziati parlavano da tempo di un limite massimo al surriscaldamento dei solidi, la cosiddetta catastrofe entropica. Questo esperimento dimostra che il limite, forse, non è poi così invalicabile. E apre nuove strade alla ricerca su materiali super resistenti, perfetti per le tecnologie del futuro: reattori nucleari, esplorazioni spaziali, elettronica avanzata.
“Non abbiamo violato la seconda legge della termodinamica,” chiarisce il fisico Thomas White, autore dello studio. “Abbiamo solo scoperto che può essere aggirata… per qualche attimo.”
Il futuro: e se non fosse solo l’oro?
Ora la domanda è un’altra: esistono altri materiali capaci di fare lo stesso? Se sì, potremmo davvero riscrivere alcune delle regole fondamentali con cui interpretiamo la materia.
Il calore, si sa, trasforma tutto. Ma forse, con i giusti strumenti, può anche essere contenuto. Anche dall’oro.
Kingston Digital Europe Co LLP ha presentato un’evoluzione straordinaria nel mondo della protezione dei dati: il drive USB IronKey™ D500S è ufficialmente certificato FIPS 140-3 di livello 3, lo standard di sicurezza più avanzato emanato dal National Institute of Standards and Technology (NIST). Questo dispositivo è il primo al mondo a ottenere tale riconoscimento con una supply chain conforme alle direttive TAA, il che lo rende una vera pietra miliare per chi cerca sicurezza digitale ai massimi livelli.
Pensato e realizzato negli Stati Uniti, il D500S è frutto di un processo rigoroso e interamente gestito da Kingston: dalla selezione dei componenti essenziali al loro assemblaggio in un ambiente protetto in California. Il risultato è un’unità che non solo impiega una crittografia hardware XTS-AES a 256 bit, ma garantisce anche il rispetto degli standard governativi e militari più esigenti.
Sicurezza multilivello e funzionalità uniche
La vera innovazione, però, non sta solo nella robustezza della crittografia, ma nella ricchezza delle funzioni integrate. Il D500S permette, per esempio, una gestione avanzata delle credenziali grazie al sistema multi-password e introduce la doppia partizione sicura: un’area visibile all’utente e una nascosta, accessibile solo attraverso autenticazione specifica. Questa soluzione offre un controllo senza precedenti, anche in ambienti non affidabili o durante la condivisione del drive.
Oltre alla modalità di sola lettura globale, che può essere impostata per mantenere i dati intatti in qualsiasi circostanza, è disponibile la funzione Crypto-Erase, che elimina in modo sicuro tutti i dati in caso di compromissione, riportando il drive alle impostazioni iniziali.
Il rivestimento esterno in zinco contribuisce a consolidare il livello di protezione, con resistenza certificata IP67 contro polvere, acqua, urti e vibrazioni secondo gli standard militari. Tutto ciò rende il D500S una soluzione affidabile per chiunque lavori con dati riservati, dalle agenzie governative alle aziende.
Offerto in versioni fino a 512 GB, con 5 anni di garanzia e supporto tecnico gratuito, IronKey D500S rappresenta l’essenza della sicurezza digitale su USB. Un dispositivo pensato non solo per proteggere i dati, ma anche per adattarsi alle esigenze di un mondo dove la riservatezza è fondamentale.
Le uova in alimentazione sono da sempre un argomento controverso. Diversi studi in passato le hanno collegato a potenziali problemi per la salute mentre in altri casi il verdetto è stato opposto. Una nuova ricerca tende da quest’ultimo lato. Viene sostenuto che un consumo abituale di questo alimento possa aiutare a contrastare il colesterolo cattivo e al tempo stesso fornire un’elevata quantità di proteine e di altri alimenti.
Lo studio sembrerebbe aver dimostrato che il consumo di uova in una dieta povera di grassi svolga un ruolo importante nella composizione di quest’ultimi. Nello specifico, non aiuta ad aumentare il livello dei grassi saturi e dei LPL, livelli di lipoproteine a bassa densità, ovvero il colesterolo considerato cattivo. Lo studio si è basato su tre gruppi di adulti che dovevano seguire tre diete diverse.
Le uova nell’alimentazione
Il primo gruppo di adulti aveva una dieta ricca di colesterolo e con pochissimi grassi saturi. Il secondo gruppo il contrario mentre il terzo gruppo presentava alti livelli di entrambi. Rispettiva il consumo di uova era di due al giorno, nessuna e uno a settimana. Il risultato è che il primo e il secondo gruppo avevano un aumento dei livelli di colesterolo mentre il gruppo che consumava più uova aveva abbassato i propri livelli.
Le parole dei ricercatori: “Le uova sono state a lungo ingiustamente penalizzate da consigli dietetici obsoleti. Sono uniche: ricche di colesterolo, certo, ma povere di grassi saturi. Eppure è proprio il loro livello di colesterolo che ha spesso portato le persone a mettere in discussione il loro ruolo in una dieta sana. Si potrebbe dire che abbiamo fornito prove concrete a difesa dell’umile uovo. Quindi, quando si tratta di una colazione calda, non sono le uova di cui dovete preoccuparvi: è la porzione extra di pancetta o il contorno di salsiccia che hanno maggiori probabilità di influire sulla salute del cuore.”
Con milioni di video taggati #InternalShower o #ChiaseedWater, la bevanda composta da acqua, semi di chia e succo di limone è diventata una moda globale. Lanciata dall’esperto Daryl Gioffre come “doccia interna” intestinale, promette di favorire la digestione, la regolarità e la sensazione di leggerezza generale.
La ricetta è semplice: un bicchiere d’acqua (circa 300 ml), un cucchiaio o due di semi di chia e il succo di mezzo limone (fino a uno intero). I semi vengono lasciati in ammollo 10–20 minuti per formare un gel viscoso prima del consumo — passaggio cruciale per evitare effetti collaterali.
Internal Shower: benefici, rischi e verità sulla bevanda detox più virale del momento
I semi di chia sono ricchi di fibre (fino al 40 %), acidi grassi omega‑3, proteine, antiossidanti e minerali come calcio, magnesio e potassio. Queste fibre, in gran parte insolubili, assorbono acqua e creano feci più voluminose e morbide, favorendo il transito intestinale e la sazietà.
Diversi esperti concordano: se il corpo non è abituato a un alto apporto di fibre, iniziare con troppo chia può provocare gonfiore, gas, crampi o diarrea. Tuttavia, per chi soffre di stipsi, la bevanda ben preparata può favorire una normale funzione intestinale, a patto di assumerla con gradualità e molta acqua.
Chi soffre di malattie gastrointestinali (come IBD, Crohn, diverticolosi) dovrebbe evitarla, specie durante fasi acute. Inoltre, la naturale acidità del limone può irritare il tratto digestivo o danneggiare lo smalto dei denti se consumata frequentemente.
Non rimpiazza una dieta equilibrata
È fondamentale cominciare con mezza dose (1 cucchiaio di semi) e aumentare gradualmente. Lasciare i semi a riposo almeno 15–20 minuti, bere adeguatamente durante la giornata e non consumare più di una volta al giorno. Chi è sotto terapia o ha condizioni croniche dovrebbe consultare un medico.
Non è una bevanda detox miracolosa e non sostituisce pasti o nutrienti essenziali. Pur essendo utile come supporto temporaneo alla regolarità, non rimpiazza una dieta equilibrata ricca di frutta, verdura, cereali integrali e legumi.
L’Internal Shower può aiutare chi ha saltuaria stitichezza o vuole aumentare l’apporto di fibra in modo semplice. Tuttavia, non è adatta a tutti e un uso scorretto può avere effetti contrari. Il consiglio principale è: moderazione, buona idratazione e ascolto del proprio corpo.
Non è fantascienza, ma un dato reale: esiste un oggetto talmente veloce da poter percorrere la distanza in linea d’aria tra Roma e Milano — 477 chilometri — in soli 23 secondi. Per capirci, un aereo di linea impiega circa un’ora, un treno ad alta velocità almeno tre. Questo misterioso “razzo”, o meglio, oggetto iperveloce, raggiunge una velocità tale da far impallidire ogni mezzo di trasporto attuale.
Il calcolo è semplice quanto sconvolgente: 477 km in 23 secondi significa viaggiare a oltre 74.500 km/h. Si tratta di più di 60 volte la velocità del suono, e circa sei volte la velocità necessaria a un razzo per uscire dall’atmosfera terrestre.
Ipotesi militari, test spaziali o tecnologia futura?
Secondo alcuni esperti di aeronautica, questi numeri potrebbero riferirsi a un test sperimentale di un veicolo ipersonico: oggetti progettati per muoversi a velocità superiori a Mach 5 (cioè cinque volte la velocità del suono).
Negli ultimi anni, sia le agenzie spaziali che le potenze militari stanno investendo risorse in tecnologie simili. La NASA, ad esempio, ha testato prototipi come l’X-43A, mentre Russia, Cina e Stati Uniti hanno già dichiarato di possedere o sviluppare armi ipersoniche capaci di viaggiare a simili velocità.
Corsa tecnologica o minaccia globale?
Se da un lato questi progressi fanno intravedere un futuro dove sarà possibile coprire continenti in pochi minuti, dall’altro sollevano gravi questioni etiche e geopolitiche. Un oggetto che attraversa l’Italia in 23 secondi potrebbe attraversare l’Europa intera in meno di due minuti.
E in un mondo dove la reazione politica e militare ha bisogno di tempo per decidere, la velocità estrema diventa anche una sfida alla sicurezza.
Una nuova era della velocità
Che si tratti di una nuova generazione di veicoli spaziali, di test bellici riservati o del futuro del trasporto globale, una cosa è certa: stiamo entrando in un’epoca in cui i confini imposti dalla distanza stanno per essere riscritti. E forse, più che domandarci quanto possiamo correre, dovremmo chiederci perché stiamo correndo così in fretta.
Un nuovo studio internazionale ha identificato un collegamento genetico tra il disturbo da uso di cannabis e vari problemi di salute mentale. I ricercatori hanno analizzato i dati genetici di centinaia di migliaia di persone, scoprendo che chi è geneticamente predisposto a sviluppare dipendenza da cannabis ha anche una maggiore probabilità di soffrire di disturbi psichiatrici, come ansia, depressione e schizofrenia.
Il disturbo da uso di cannabis si verifica quando il consumo della sostanza diventa compulsivo e difficile da controllare, causando conseguenze negative sulla vita quotidiana. Non si tratta di un semplice uso occasionale, ma di una vera e propria dipendenza che può avere effetti sul funzionamento sociale, lavorativo e sulla salute mentale.
Uso di cannabis e problemi mentali: la genetica svela una connessione nascosta
Gli studiosi hanno individuato alcune varianti genetiche comuni tra chi soffre di dipendenza da cannabis e chi presenta disturbi psichiatrici. Questo suggerisce che, almeno in parte, esista una base biologica condivisa che può aumentare il rischio di entrambe le condizioni. In altre parole, chi ha una predisposizione genetica al disturbo da uso di cannabis potrebbe essere più vulnerabile anche a problemi mentali e viceversa.
I risultati dello studio aiutano a spiegare perché spesso si osserva una coesistenza tra l’abuso di cannabis e alcune malattie psichiatriche. Fino ad oggi, era difficile capire se fosse la cannabis a causare i problemi di salute mentale o se esistesse un’altra causa sottostante. Ora emerge l’ipotesi che una parte della responsabilità sia scritta nei geni.
Questo non significa che il consumo di cannabis sia sempre dannoso o che tutte le persone che la usano svilupperanno dipendenza o malattie mentali. Tuttavia, la scoperta mette in luce l’importanza di un approccio personalizzato alla prevenzione e al trattamento, soprattutto per chi ha familiarità con problemi psichiatrici o dipendenze.
Un passo avanti importante nella lotta alle dipendenze
La ricerca genetica potrebbe, in futuro, permettere di identificare le persone più a rischio attraverso semplici test, aiutando a prevenire comportamenti problematici prima che si sviluppino. Sarebbe un passo avanti importante nella lotta alle dipendenze e alla tutela della salute mentale.
Gli esperti sottolineano anche la necessità di fare maggiore informazione sui rischi legati all’uso cronico e incontrollato di cannabis, soprattutto tra i giovani. In un periodo storico in cui la percezione della cannabis sta diventando più permissiva, questi dati ricordano che non si tratta di una sostanza priva di conseguenze.
La ricerca proseguirà per approfondire i meccanismi biologici alla base di questo legame genetico. Comprendere meglio come interagiscono geni, ambiente e sostanze psicoattive sarà fondamentale per costruire strategie di prevenzione più efficaci e terapie mirate.
WhatsApp porta in campo nuove impostazioni per la scelta dell’immagine del profilo! Dopo aver migliorato l’interfaccia permettendo di visualizzare contemporaneamente sia l’immagine che il proprio avatar, ora arriva la possibilità di scegliere la foto profilo direttamente da Facebook e Instagram. Ecco tutti i dettagli a riguardo.
I prodotti di Meta sono sempre più collegati tra loro. Nel corso dei mesi scorsi sono aumentate sensibilmente le funzioni che rendono WhatsApp sempre più vicina a Facebook e Instagram. La novità aggiunta in queste ore ne è la prova. Andiamo a scoprire come utilizzarla.
WhatsApp: come scegliere l’immagine di profilo da Facebook e Instagram
A dare tutte le informazioni sulla novità appena lanciata da WhatsApp è stato, in queste ore, il noto WABetaInfo. Questo ha confermato che una serie di beta tester si sono visti comparire la nuova funzione con l’ultimo aggiornamento dell’app. Ora, quando si prova ad impostare una nuova immagine del profilo, tra le opzioni ne compaiono anche due che permettono di selezionare un’immagine da Facebook e Instagram. La novità, seppur piccola, risulterà molto comoda per coloro che hanno molte foto disponibili sugli altri social, ma nella galleria del proprio smartphone.
Come abbiamo già accennato, la funzione è attualmente disponibile solo per una cerchia ristretta di beta tester. Se tutto andrà per il verso giusto, questa arriverà per tutti nel corso dei prossimi giorni. Restate in attesa per eventuali aggiornamenti a riguardo.
Contrariamente a quanto spesso immaginato, le donne che uccidono raramente lo fanno per via di una patologia psicopatica: studi neuroscientifici e forensi mostrano punteggi più bassi di psicopatia tra femminili omicidi, rispetto ai maschi, suggerendo che il disturbo non sia la norma nei casi di femminicidio o omicidi tra donne.
Per molte donne coinvolte in omicidi, le emozioni – rabbia, paura, vergogna – sono il detonatore dell’azione. Spesso si tratta di risposte estreme a minacce percepite o reali, non di un desiderio calcolato di annientare: la vendetta o la difesa di sé prevalgono su freddezza e pianificazione sistematica.
Cosa spinge le donne a uccidere? Meno psicopatia, più emozione e minaccia
L’analisi dei casi mostra che, nella maggior parte, le vittime sono persone vicine: partner, familiari o minori. Questo perché le donne tendono a uccidere chi conoscono, spesso in situazioni dove il legame è conflittuale, non per impulsi di dominio su estranei.
Un elemento ricorrente nei profili delle autrici è una storia di abusi, violenze domestiche e traumi infantili: secondo il “feminist pathways perspective”, oltre il 60–75% delle donne detenute per omicidio ha vissuto violenze nell’età adulta o nell’infanzia. Tali eventi costituiscono un percorso verso la violenza – in molti casi come autodifesa o risposta estrema a un ciclo di oppressione.
Le modalità d’azione descritte nei casi femminili includono spesso avvelenamento o uso di sostanze: strumenti discreti, non visibili, spesso rivolti a vittime vulnerabili. Tali energie rifletono forme di aggressività più insidiose che dirette, meno violente nel gesto, ma non per questo meno letali.
Prevenire sul piano sociale e clinico
Anche il profitto materiale rappresenta una motivazione comune: omititrici seriali, definite “vedove nere”, spesso uccidono mariti o partner per ricchezza, benefici o assicurazioni. In quei casi, il movente non è l’omicidio in sé, ma una strategia di sopravvivenza o ribaltamento di potere economico.
La percezione di una minaccia imminente – violenza domestica, abbandono, tradimento – spesso catalizza il gesto estremo. Non si tratta di mania di persecuzione, ma di circostanze vissute come spinte al limite, dove l’omicidio appare come unica via d’uscita.
Gli esperti sottolineano che l’obiettivo non è assolvere, ma comprendere: questi omicidi nascono più da un vissuto emotivo e minacce esterne che da disturbi di personalità. Interpretare la violenza femminile come prodotto di esperienze traumatiche e contesti oppressivi aiuta non solo a comprendere i fattori di rischio, ma anche a prevenire sul piano sociale e clinico.
Manca oramai poco al lancio della nuova generazione di iPad Pro. Stando alle ultime indiscrezioni, sia il modello con display da 11 pollici che quello con display da 13 pollici dovrebbero arrivare sugli scaffali tra ottobre a novembre. In queste ore, i colleghi di 9to5mac hanno deciso di riassumere quelle che saranno le 4 novità in arrivo. Andiamo a scoprirle insieme!
Purtroppo, i prezzi di listino dei prodotti non diminuiranno rispetto a quelli della generazione precedente. Allo stesso tempo, non dovrebbero neanche esserci aumenti. Ci si aspetta che i vari modelli costeranno esattamente come quelli attualmente in vendita.
iPad Pro 2025: le novità in arrivo
1) Chip M5
Nonostante l’M4 presente sugli attuali modelli sia super performante, la nuova generazione porterà in campo un nuovissimo chip Apple Silicon, l’M5. Le performance del dispositivo lasceranno tutti a bocca aperta.
2) Doppia fotocamera frontale
Una novità molto attesa sarà l’aggiunta di una doppia fotocamera frontale su entrambe le varianti in uscita quest’anno. L’aggiunta permetterà di effettuare scatti di qualità a prescindere dall’angolazione del dispositivo.
3) 16 GB di memoria RAM
Le attuali versioni di iPad Pro, tranne le versioni con almeno 1TB di memoria, montano una RAM da 8 GB. Stando a quanto emerso online, la prossima generazione monterà una memoria RAM da 16 GB su tutti i tagli di memoria. Parliamo di una miglioria da non poco conto.
4) supporto Wi-Fi 7
Un’altra interessante novità sarà il supporto a Wi-Fi 7. Questo non solo renderà le connessioni più veloci, ma garantirà una serie di benefici non da poco.
Una donna di 82 anni è deceduta all’ospedale di Fondi (provincia di Latina) dopo aver contratto l’infezione da virus del Nilo occidentale. Si tratta del primo decesso registrato nella regione nel 2025. Ad oggi sono stati confermati 28 casi di infezione nel Lazio: 26 nella provincia di Latina e 2 nella provincia di Roma (nei Comuni di Anzio e Nettuno).
In Italia sono stati registrati 32 casi totali da inizio anno, con un altro decesso riscontrato in Piemonte. Di questi, 15 presentano forme neuro-invasiva in Lazio, il resto febbrili o asintomatiche.
Allarme Febbre del Nilo: morta una donna nel Lazio, i sintomi da riconoscere e le zone colpite
Nella maggior parte dei casi, l’infezione è lieve o asintomatica. Circa il 20 % presenta febbre, mal di testa, nausea, dolori muscolari ed eruzioni cutanee. In meno dell’1–5 % si verificano complicanze neurologiche gravi come meningite o encefalite, con febbre alta, confusione mentale, convulsioni e in rari casi paralisi.
Il virus è veicolato dalle zanzare Culex pipiens, che si infettano pungendo uccelli (serbatoio naturale) e successivamente trasmettono il virus all’uomo. Non avviene trasmissione da persona a persona, eccetto rari casi legati a trasfusioni, trapianti o trasmissione verticale.
Fondamentale adottare precauzioni individuali
Le zone maggiormente colpite includono: Aprilia, Cisterna di Latina, Fondi, Latina, Pontinia, Priverno, Sezze e Sabaudia, mentre nella provincia di Roma i casi si sono registrati ad Anzio e Nettuno. La Regione Lazio ha esteso le misure di sorveglianza e prevenzione anche alla ASL Roma 6, includendo screening obbligatorio dei donatori di sangue (test NAT). Sono in corso campagne di disinfestazione, monitoraggio dei vettori e coordinamento con Spallanzani, ISS e istituti veterinari.
È fondamentale adottare precauzioni individuali: evitare punture di zanzara con repellenti, zanzariere, abbigliamento coprente dalla sera a notte. Evitare aree stagnanti e sottovasi dove le zanzare si riproducono. In caso di febbre persistente, mal di testa o sintomi neurologici, contattare subito il medico.
Per secoli, l’idea di trasformare i metalli vili in oro è stata il sacro Graal degli alchimisti. Si chiamava crisopea, e prometteva ricchezza e prestigio a chi ne avesse svelato il segreto. Oggi, questa visione romantica appartiene al passato. Ma ciò che sembrava un’illusione medievale è stato in realtà realizzato dalla scienza moderna, anche se con risultati tutt’altro che convenienti.
Come si trasforma un metallo in oro
Dal punto di vista scientifico, trasformare un elemento in un altro è possibile. Tutto dipende dal numero di protoni nel nucleo atomico: l’oro ne ha 79, il piombo 82. Rimuovendone tre, teoricamente, si può ottenere oro. Tuttavia, questo processo richiede energie elevatissime, ottenibili solo con acceleratori di particelle.
Il primo esperimento riuscito risale al 1941, quando scienziati di Harvard bombardarono atomi di mercurio (80 protoni) con particelle ad alta energia, creando isotopi radioattivi dell’oro. L’impresa fu poi replicata negli anni ’80 dal Nobel Glenn Seaborg, utilizzando collisioni tra nuclei di bismuto e particelle accelerate.
Una scoperta affascinante, ma inutile per arricchirsi
Nonostante questi esperimenti abbiano dimostrato la fattibilità tecnica della trasmutazione, i costi restano proibitivi. L’oro prodotto è in quantità minime, e l’intero processo è mille miliardi di volte più costoso del valore dell’oro ottenuto.
Come ha sottolineato Alexander Kalweit, fisico al CERN, “nessuno di questi esperimenti è nemmeno lontanamente redditizio”.
La scienza ha battuto l’alchimia, ma a caro prezzo
Oggi, nei grandi laboratori come il Large Hadron Collider, la trasformazione dei metalli in oro avviene come sottoprodotto casuale di studi su collisioni atomiche. Non c’è alcuna intenzione di produrre oro per fini pratici.
In conclusione, sì, trasformare metalli in oro è possibile. Ma l’antico sogno degli alchimisti si è infranto contro una realtà scientifica in cui l’energia richiesta e i costi sono semplicemente troppo alti. Una vittoria teorica, ma una sconfitta economica.
Amazon annuncia l’attesissimo arrivo del nuovo Kindle Colorsoft, l’e-reader che segna un’evoluzione decisiva nel mondo della lettura digitale. Dotato di 16 GB di memoria, il nuovo Kindle propone tutte le funzionalità che hanno conquistato milioni di utenti: uno schermo Colorsoft ad alto contrasto, luce calda regolabile, settimane di autonomia e cambi pagina rapidi. Il tutto con il vantaggio esclusivo di poter esplorare le immagini, le copertine e i fumetti in colori brillanti, per un’immersione totale nei contenuti.
L’entusiasmo per Kindle è evidente anche dai numeri record registrati durante il Prime Day: le vendite sono aumentate del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Non solo si acquistano più dispositivi, ma si legge anche di più. Nel 2025, gli utenti hanno già sfogliato oltre 129 miliardi di pagine, miliardi in più rispetto al 2024. Questo dimostra quanto l’esperienza offerta dal Kindle Colorsoft sia apprezzata e coinvolgente: chi lo utilizza legge centinaia di pagine in più rispetto ai modelli tradizionali.
La magia del colore cambia il modo di leggere
Grazie alla tecnologia Colorsoft, ora è possibile sfogliare la propria libreria vedendo copertine a colori, leggere fumetti in modo più coinvolgente, visualizzare immagini e fotografie direttamente dai libri, e evidenziare il testo in giallo, arancione, blu o rosa. Queste evidenziazioni si possono facilmente filtrare per ritrovare i punti salienti. Inoltre, la funzione Colore Pagina offre la possibilità di invertire i colori e leggere con testo chiaro su sfondo scuro, ideale per la lettura notturna o per chi ha sensibilità visiva.
Disponibile al prezzo di €269,99, Kindle Colorsoft include tre mesi di Kindle Unlimited per iniziare subito a leggere senza limiti. La versione premium, Kindle Colorsoft Signature Edition, offre ricarica wireless, luce frontale automatica e 32 GB di memoria, al prezzo di €299,99. Una scelta perfetta per chi vuole vivere ogni pagina con un tocco di colore in più.
Una ricerca condotta dall’IRCCS “Saverio de Bellis” di Castellana Grotte (Bari), pubblicata su Nutrients, ha analizzato l’alimentazione e gli esiti di salute di 4.869 adulti seguiti per circa 19 anni. L’obiettivo era valutare se un’eccessiva assunzione di carne di pollo fosse collegata alla mortalità, in particolare per tumori gastrointestinali.
I risultati principali
100–200 g di pollo a settimana: aumento del 35% del rischio di morte per tumori digestivi rispetto a chi ne consuma meno di 100 g.
Oltre 200 g a settimana: rischio raddoppiato (+100%) rispetto al consumo inferiore ai 100 g
Più di 300 g settimanali: +27% di rischio di mortalità per tutte le cause; rischio più che duplicato per tumori gastrointestinali, soprattutto negli uomini.
Pollo vs carne rossa: confronto sorprendente
Lo studio ha anche rilevato che la carne rossa aumenta il rischio di tumori gastrointestinali del 23% ma solo se consumata oltre 350 g a settimana, una soglia più elevata rispetto al pollo. Ciò mette in discussione l’idea diffusa che il pollo sia sempre più salutare.
Le ipotesi spiegate dagli esperti
L’aumento del rischio legato al pollo potrebbe dipendere da:
cottura ad alte temperature che favorisce la formazione di amine eterocicliche e idrocarburi policiclici aromatici, composti mutageni associati a diverse neoplasie;
residui chimici da mangimi, antibiotici o ormoni negli allevamenti intensivi, che potrebbero avere effetti tossici o pro-infiammatori.
Limitazioni dello studio da considerare
Gli autori stessi e gli enti di settore sottolineano che:
si tratta di uno studio osservazionale, quindi non prova un legame causale diretto;
non sono state identificate modalità di cottura, tagli di carne o metodi di allevamento specifici, fattori che possono influenzare i risultati;
la popolazione studiata è limitata al Sud Italia, rendendo incerta la generalizzabilità.
Cosa dicono le linee guida ufficiali
Secondo la Fondazione Veronesi e le indicazioni del CREA, le raccomandazioni nutrizionali restano prudenziali:
1–3 porzioni settimanali di carne bianca da 100 g l’una sarebbero compatibili con una dieta equilibrata;
la carne rossa non superi 500 g a settimana totali, con preferenza per tagli magri e metodi di cottura dolci.
Cosa emerge: moderazione e contesto
Non si tratta di demonizzare il pollo, ma di considerarlo nel contesto di:
una dieta globale ricca di vegetali, fibre, pesce e legumi;
attenzione ai metodi di cottura (evitando carbonizzazioni);
variazione delle fonti proteiche per limitare esposizioni specifiche
Il verdetto a oggi
Pollo e carne rossa presentano rischi se consumati in eccesso, ma con modalità diverse. Il pollo, secondo questo studio, può risultare problematico già a quantità considerate moderate (oltre 100 g/settimana). Tuttavia, viste le limitazioni metodologiche, è necessaria cautela nel trarre conclusioni definitive. Il messaggio centrale è: meno polarizzazione tra colori della carne e maggiore attenzione allo stile alimentare complessivo.
Siamo entrati in una nuova era di farmaci per perdere peso, un’era in cui questi trattamenti, nonostante pensati inizialmente per altro, sono molto efficaci in tal senso. Ormai ce ne sono diversi e funzionano tutti con lo stesso principio facendo impallidire tutto quello che è venuto prima. Tra l’altro si sta parlando di farmaci con all’apparenza pochissimi effetti collaterali e con altre qualità che vengono scoperte una in fila all’altra.
Detto questo, cosa succede quando si smette di prendere questi farmaci? Una ricerca condotta da un team dell’Università di Pechino ha preso in esame 11 altri studi che hanno interessato quasi 2.500 persone che prendevano trattamenti basati sull’agonista del recettore del peptide-1, o più semplicemente detti GLP-1. Quello che si evinceva è che una buona parte del peso perso durante il periodo di assunzione veniva poi ripreso.
Cosa succedere a smettere di prendere i nuovi farmaci per perdere peso
Da un lato questo fenomeno non è una novità solo di questi farmaci per perdere peso, ma riguarda un po’ tutti i metodi che vengono usati per arrivare al proprio obiettivo desiderato. Escludendo momentaneamente aspetti come la banale necessità di cambiare stile di vita se la perdita è arrivata solo tramite aiuto esterno, i ricercatori vogliono capire se è possibile che il corpo si riorganizzi in modo diverso.
Le parole dei ricercatori: “Un significativo recupero di peso si è verificato otto settimane dopo l’interruzione degli OMA e si è mantenuto per 20 settimane. Sono stati osservati diversi livelli di recupero di peso in soggetti con caratteristiche diverse. Sono necessari studi con un follow-up più lungo per indagare ulteriormente i potenziali fattori associati alla variazione di peso dopo l’interruzione del trattamento.”