Siamo abituati a immaginare i pianeti come sfere quasi perfette, ma Marte ha una forma irregolare, simile a un pallone da rugby, con tre assi di lunghezza diversa.
Questa triassialità è particolarmente evidente in due regioni:
Tharsis, un altopiano vulcanico con giganteschi rilievi
Syrtis Major, un’area basaltica situata sul lato opposto del pianeta
Ma cosa ha causato questa strana forma? La risposta potrebbe essere… una luna scomparsa.
L’effetto marea di Nerio: la luna che non c’è più
Secondo lo studio dell’astronomo Michael Efroimsky dell’Osservatorio Navale degli Stati Uniti, Marte non è nato con questa forma. A deformarlo sarebbe stata una luna chiamata Nerio, oggi scomparsa.
Come la nostra Luna crea le maree terrestri, Nerio avrebbe esercitato una forza gravitazionale tale da “tirare” la crosta marziana, generando sporgenze e depressioni.
Il pianeta, all’epoca ancora geologicamente plastico, si sarebbe deformato in modo permanente man mano che si raffreddava, “congelando” la sua forma distorta nella crosta.
La luna scomparsa e la geologia di Marte
Lo studio ipotizza che Nerio orbitasse in modo sincrono attorno a Marte, mostrando sempre la stessa faccia al pianeta (come la nostra Luna fa con la Terra).
Questo allineamento avrebbe causato:
Un rigonfiamento lungo un asse principale
Un indebolimento della crosta nelle zone più sollevate
Una maggiore attività vulcanica e tettonica in quelle aree, come la regione di Tharsis
Nerio non era una luna gigantesca: bastava che avesse un terzo della massa della nostra Luna per provocare queste conseguenze.
Che fine ha fatto Nerio?
Nerio oggi non esiste più. Lo studio ipotizza due scenari:
Potrebbe essere stata distrutta da una collisione
Oppure espulsa da un’interazione gravitazionale con un altro corpo celeste
Oggi Marte ha solo due piccole lune: Phobos e Deimos, troppo leggere per causare effetti simili.
Un nuovo modo di vedere i pianeti
Questa teoria non cambia solo il nostro modo di guardare Marte. Ci suggerisce che la forma di un pianeta può conservare tracce di eventi antichi, anche di satelliti ormai scomparsi.
La proposta di Efroimsky, ancora in fase preliminare (è stata pubblicata su arXiv, in attesa di revisione), invita gli scienziati a rileggere le forme dei pianeti come se fossero testimonianze fossili della loro storia orbitale.
La strana forma di Marte potrebbe non essere il risultato di eventi casuali, ma il segno indelebile di una relazione antica con una luna perduta, Nerio.
Una nuova prospettiva che apre affascinanti scenari sulla storia invisibile dei pianeti, scolpita non solo da vulcani e crateri, ma anche da satelliti che, pur scomparsi, hanno lasciato il loro marchio nella geologia.
Nelle scorse settimane si è parlato di quelle che potrebbero essere le nuove colorazioni per i prossimi iPhone 17. È stato detto che sia la versione base che quella Pro riceveranno almeno una colorazione nuova rispetto allo scorso anno. Nulla è stato detto, invece, per quanto riguarda gli iPhone 17 Air. I nuovissimi dispositivi arriveranno sul campo in colorazioni parecchio sbiadite. Secondo un leaker cinese, il colore principale del dispositivo sarà un blu molto chiaro. Ecco tutti i dettagli a riguardo.
Ebbene sì, Apple potrebbe seguire la stessa strada adottata per gli iPad: colorazioni accese per i modelli base, colorazioni “soft” per i modelli Air e colorazioni neutre per i Pro. Se verrà seguita questa logica, i nuovi iPhone 17 Air presenteranno colorazioni che potrebbero non convincere molti utenti.
iPhone 17 Air: la colorazione principale sarà “Barely Blue”?
La colorazione principale di iPhone 17 Air è stata definita dal leaker cinese come “Barely Blue“, una tonalità di blu molto sbiadita che sembrerà addirittura bianca in determinate condizioni di luce. Questa, a quanto pare, sarà la variante che Apple deciderà di promuovere come principale, ma ovviamente non sarà l’unica. Il dispositivo sarà disponibile anche in un altra serie di colorazioni (forse le stesse di iPad Air?), ma tutte saranno sbiadite. Come la prenderanno gli utenti?
Sarà curioso vedere come Apple giustificherà le nuove colorazioni. Ricordiamo che già in passato gli utenti si sono lamentati per i colori poco accessi di iPhone. Accadrà la stessa cosa anche questa volta? Restate in attesa per tutti gli aggiornamenti a riguardo.
L’obesità è una vera e propria epidemia globale, ma colpisce con intensità molto diversa da Paese a Paese. Negli Stati Uniti, oltre il 40% degli adulti è obeso, mentre in Italia la percentuale si aggira intorno al 10%. Come mai due società moderne, con accesso simile ai beni di consumo, mostrano una differenza così marcata?
Una delle risposte principali si trova a tavola. L’Italia è la patria della dieta mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Questo stile alimentare, basato su verdure, legumi, cereali integrali, olio d’oliva e moderate quantità di carne e pesce, aiuta a prevenire malattie cardiovascolari, diabete e obesità.
Obesità: perché colpisce meno gli italiani rispetto agli americani
A differenza della cultura del “fast food” dominante negli USA, gli italiani mantengono un legame profondo con la cucina casalinga e i pasti regolari, spesso consumati in compagnia. Il concetto di “porzione gigante” è poco diffuso, così come l’abitudine di mangiare in auto o davanti alla TV, pratica comune oltreoceano.
Anche la cultura del movimento quotidiano gioca un ruolo importante. In molte città italiane, soprattutto nei centri storici, ci si sposta ancora a piedi o in bicicletta. Al contrario, la struttura urbanistica americana, basata sull’automobile, riduce drasticamente le occasioni di attività fisica spontanea.
C’è poi un aspetto culturale più sottile: in Italia, l’aspetto estetico e la cura del corpo sono ancora considerati importanti valori sociali. Questo si riflette anche in una maggiore attenzione al proprio peso e benessere, sin da giovani. L’immagine corporea è influenzata da modelli diversi rispetto a quelli prevalenti in altri contesti.
Promuovere i punti di forza della nostra tradizione alimentare
Anche le politiche sanitarie e scolastiche contribuiscono: sebbene non perfette, in Italia sono presenti programmi di educazione alimentare nelle scuole, campagne contro la sedentarietà e un sistema sanitario che incoraggia la prevenzione.
Tuttavia, il divario si sta assottigliando. L’obesità infantile è in aumento anche in Italia, complice l’abbandono delle abitudini alimentari tradizionali e l’aumento del consumo di cibi ultraprocessati. Il rischio è che il modello americano venga importato senza filtri, con conseguenze a lungo termine.
In conclusione, gli italiani non sono “geneticamente immuni” all’obesità: il loro vantaggio è culturale, sociale e legato alle abitudini quotidiane. Ma per conservarlo, sarà fondamentale proteggere e promuovere i punti di forza della nostra tradizione alimentare, prima che sia troppo tardi.
Chi usa quotidianamente lo smartphone sa bene quanto sia facile accumulare file, cache, immagini duplicate e video dimenticati. E spesso, anche cancellando manualmente, lo spazio non si libera davvero. Il motivo? Alcune applicazioni conservano dati in un “cestino nascosto”, invisibile all’utente medio ma facilmente accessibile con qualche passaggio.
Si tratta di una procedura semplice e sicura che può restituire centinaia di megabyte — se non gigabyte — di memoria, migliorando le prestazioni del dispositivo.
Dove si trova il “cestino nascosto”?
Molte app, soprattutto quelle di gestione file, galleria o cloud, non eliminano subito i file, ma li spostano in una sorta di area temporanea. Ecco dove cercarlo:
Google Foto
Apri l’app → vai nel menù in basso su “Raccolta” → scorri fino a “Cestino”. Qui vengono conservati per 30 giorni tutti gli elementi eliminati. Tocca “Svuota cestino” per liberare spazio immediatamente.
File di Google (Files by Google)
L’app File ha una sezione “Cestino” tra le sue opzioni principali. Si trova nel menù laterale o nella scheda “Esplora”, in fondo. Qui potresti trovare video, documenti o file audio rimossi ma ancora conservati.
Dropbox / Google Drive / OneDrive
Anche i servizi cloud conservano i file eliminati per un periodo. Vai su “Cestino” o “File eliminati” direttamente dal menù. Attenzione: finché questi file sono lì, occupano spazio nel tuo cloud.
Galleria Samsung o Xiaomi
Le app native di molti telefoni Android conservano foto e video nel Cestino per 30 giorni. Controlla nell’app “Galleria” → “Album” → “Cestino” o “Eliminati di recente”.
Cosa si può trovare al suo interno?
Nel Cestino nascosto spesso si trovano:
Foto duplicate o cancellate per sbaglio
Video ingombranti
Documenti temporanei
Cache e anteprime salvate in background
Note vocali o messaggi vocali già ascoltati
Attenzione però: prima di svuotarlo, verifica che non ci siano file importanti finiti lì per errore.
Perché è utile svuotarlo periodicamente?
Libera memoria interna e cloud
Accelera il telefono
Riduce il rischio di errori o blocchi
Mantiene organizzati i tuoi file
Se il tuo telefono segnala “memoria quasi piena”, o se noti che le app si chiudono da sole o rallentano, svuotare i cestini nascosti è una delle prime operazioni da fare.
Un consiglio extra: automatizza la pulizia
Alcune app, come Files di Google o Clean Master, permettono di programmare pulizie periodiche, oppure inviano notifiche quando i file nel cestino iniziano a occupare troppo spazio.
Svuotare il cestino nascosto non solo ti aiuta a recuperare spazio prezioso, ma migliora la salute generale del tuo dispositivo. Una buona abitudine da inserire nella tua routine digitale, almeno una volta al mese.
Quando si pensa a uno speaker portatile da portare ovunque – dalla spiaggia al bosco, dal balcone alla cima di una montagna – ci si trova sempre di fronte a un compromesso: o si punta tutto sulla qualità audio, sacrificando robustezza e autonomia, o si sceglie la resistenza, a discapito del suono. Ma ecco che a metà 2025, Anker presenta un nuovo contendente nella fascia media degli speaker rugged: il Soundcore Boom 3i. E la promessa è ambiziosa: un suono potente, una costruzione a prova di tutto e una serie di funzioni smart che lo rendono più di un semplice altoparlante Bluetooth.
Ma è davvero all’altezza? Lo abbiamo messo alla prova in ogni situazione, dall’asfalto rovente di una città in piena estate ai tuffi in piscina, fino ai tramonti in spiaggia con la musica a tutto volume. Il risultato? Una sorpresa, sotto molti punti di vista.
Primo impatto: design che parla chiaro
Appena estratto dalla confezione, il Boom 3i dà subito l’impressione di essere stato progettato per durare. Il corpo, costruito in plastica ABS rinforzata, è avvolto da inserti in tessuto tecnico che non solo danno un tocco sportivo ma migliorano anche il grip. Anche con mani bagnate o sabbiose, lo speaker si impugna senza fatica. È evidente che Soundcore ha preso sul serio le esigenze degli utenti outdoor, curando anche il più piccolo dettaglio.
Le dimensioni – 210 x 85 x 78.5 mm – lo rendono facilmente trasportabile ma abbastanza imponente da farsi notare. Non è un mini speaker da tasca, ma non dà neanche fastidio nello zaino. Merito anche della solida maniglia superiore in alluminio spazzolato con rivestimento in gomma: si tiene bene in mano, non scivola, e resiste senza problemi a urti e torsioni.
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Sui lati si notano i radiatori passivi, incorniciati da un anello LED multicolore che può essere personalizzato tramite app. Le luci non sono solo estetica: aiutano anche a rendere visibile lo speaker al buio, ad esempio in campeggio o durante una festa serale. Volendo, possono essere disattivate per risparmiare batteria o passare inosservati.
Audio: un cuore potente da 50W che non delude
Il Boom 3i è progettato per stupire non solo per l’aspetto, ma soprattutto per ciò che sa fare quando la musica parte. 50 watt reali sprigionati da un sistema con woofer ottimizzati e radiatori passivi laterali: una combinazione che garantisce bassi profondi e presenti, ma anche un’eccellente resa dei medi e un buon dettaglio sugli alti.
La firma sonora di Soundcore è immediatamente riconoscibile. A volumi medi, in ambienti chiusi, sorprende la chiarezza delle voci e la distinzione degli strumenti. Ma è all’aperto che la cassa dà il meglio di sé. Anche in presenza di vento, rumori di fondo o distanza tra ascoltatori e speaker, il Boom 3i mantiene corpo e definizione. Il merito va anche al sistema BassUp 2.0, che non si limita a “pompare” i bassi, ma li rende dinamici e controllati.
Durante le prove con diversi generi – elettronica, jazz, hip-hop, rock, acustica – lo speaker si è adattato senza problemi, mostrando una versatilità rara nella fascia di prezzo. Fino all’85% del volume massimo, la distorsione è minima. Solo spingendolo oltre si nota una compressione della dinamica, ma resta perfettamente utilizzabile anche per party con molte persone.
Connettività e funzioni extra: molto più di un altoparlante
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Dal punto di vista della connettività, il Boom 3i si affida al collaudato Bluetooth 5.3, che assicura una connessione stabile e veloce fino a 10 metri, anche in ambienti affollati. Nelle prove reali – parchi cittadini, spiagge affollate – non abbiamo mai riscontrato interruzioni o lag. Oltre al wireless, c’è anche l’ingresso AUX da 3.5mm per chi preferisce le sorgenti cablate. Sul retro, protette da uno sportellino in gomma ermetico, troviamo anche una porta USB-C per la ricarica rapida e un’uscita USB-A che consente di usare il Boom 3i come power bank. Una comodità non da poco per chi è in giro tutto il giorno e deve ricaricare il telefono.
Un plauso va anche all’integrazione software. L’app Soundcore per iOS e Android permette di personalizzare ogni aspetto dell’esperienza: dalla gestione dei LED alla configurazione dell’equalizzatore a 9 bande, passando per la selezione di preset come “Voice”, “BassUp” o “Treble Boost”. La modalità PartyCast 2.0 consente il collegamento simultaneo fino a 100 speaker compatibili, mentre il pairing stereo con un secondo Boom 3i crea un’esperienza d’ascolto sorprendentemente immersiva. Tra le chicche più curiose c’è il Voice Amplifier, che trasforma il Boom 3i in un megafono – utile per annunci, lezioni o escursioni di gruppo. Non manca nemmeno una sirena di emergenza e una funzione chiamata Buzz Clean, che utilizza frequenze specifiche per espellere sabbia e acqua dalle membrane dopo immersioni.
Batteria e ricarica: lunga durata, ricarica veloce
Una delle principali preoccupazioni degli utenti in mobilità è l’autonomia. Il Boom 3i promette fino a 24 ore di riproduzione, ma nella realtà – con uso misto, volume al 60% e LED attivi – si assesta intorno alle 16 ore effettive, un risultato assolutamente soddisfacente per uno speaker da 50W. Con il caricatore giusto (30W), si passa dallo 0 al 50% in meno di un’ora, e si arriva al 100% in circa tre ore. L’indicatore LED a tre colori (verde, giallo, rosso) offre una lettura immediata dello stato della batteria. Anche l’uso come power bank ha un impatto contenuto: si riesce a ricaricare uno smartphone standard senza prosciugare completamente la cassa.
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Un punto di forza spesso trascurato è la gestione termica: anche dopo ore di riproduzione ad alto volume, lo speaker non si surriscalda. Solo sotto il sole diretto e temperature superiori ai 35°C si nota un lieve calo prestazionale, segno che entra in funzione un sistema di protezione termica intelligente.
Robustezza estrema: pronto per ogni avventura
La certificazione IP68 non è solo un numero. Il Boom 3i è davvero impermeabile: può essere immerso completamente in acqua, rotolato nella sabbia, lasciato sotto la pioggia battente – e continuerà a suonare. Dopo test estremi (acqua salata, cadute su cemento, esposizione al sole), non abbiamo rilevato alcun malfunzionamento.
L’aspetto più sorprendente? Galleggia. Non solo: galleggia nel verso giusto, con i driver rivolti verso l’alto, continuando a riprodurre musica. Una feature perfetta per chi pratica sport acquatici o semplicemente vuole ascoltare la playlist preferita mentre si rilassa in piscina. Anche la resistenza agli urti è eccellente. Le cadute da un metro non lasciano alcun danno strutturale, solo qualche graffio superficiale. La griglia metallica anteriore è spessa e ben ancorata, i materiali sono solidi e assemblati con precisione. La maniglia in alluminio resiste senza problemi a carichi elevati, ed è stata testata anche con zaini pieni agganciati.
Un equilibrio raro tra prezzo, prestazioni e versatilità
Il Boom 3i non è il più potente sul mercato, né il più raffinato. Ma è probabilmente il più bilanciato nella sua fascia. Mentre concorrenti come JBL Xtreme 4 o Sony XG300 puntano su specifici vantaggi – maggiore potenza, luci più spettacolari o codec avanzati – Soundcore sceglie un approccio più sobrio ma estremamente efficace. Certo, manca il supporto ad aptX o AAC, e l’app potrebbe essere più moderna nel design. Tuttavia, l’esperienza d’uso resta fluida e convincente. La qualità audio è più che soddisfacente, le funzioni smart abbondano, e la costruzione lo rende un vero “tuttofare” da portare ovunque senza pensieri.
Conclusione: un compagno musicale per tutte le stagioni
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Il Soundcore Boom 3i è più di uno speaker: è un compagno di viaggio, un amplificatore di emozioni, uno strumento di connessione. Che si tratti di una serata tra amici sotto le stelle, di un’escursione tra i boschi o di una festa improvvisata al parco, c’è sempre posto per lui.
Non è perfetto, ma è dannatamente completo. E soprattutto, fa quello che promette. In un mondo di dispositivi che a volte sembrano costruiti solo per stupire con funzioni inutili, il Boom 3i va dritto al punto: riproduce musica forte, bene, ovunque.
Disponibile ad un prezzo di listino di 129 euro su Amazon (a questo link), ma solo per i giorni dell’Amazon Prime day è in promozione a 99 euro.
Per anni è stata al centro di un acceso dibattito tra medici e ricercatori: la terapia ormonale sostitutiva (TOS) nelle donne in menopausa precoce fa bene o male al cuore? Ora, una nuova e autorevole ricerca mette fine alla confusione, affermando chiaramente che la TOS può offrire benefici significativi per la salute cardiovascolare nelle donne che entrano in menopausa prima dei 45 anni.
Pubblicato su una rivista scientifica di riferimento, lo studio ha analizzato i dati di migliaia di donne seguite per oltre un decennio. I risultati mostrano che chi ha assunto estrogeni dopo la menopausa precoce ha registrato una minore incidenza di malattie cardiache, infarti e altre complicazioni vascolari, rispetto a chi non ha fatto uso di terapia ormonale.
Terapia ormonale e cuore: svolta per le donne in menopausa precoce
Questo rovescia anni di prudenza e confusione, nati da studi precedenti che avevano indicato un possibile aumento del rischio cardiovascolare con l’uso della TOS. Tuttavia, i ricercatori spiegano che molti di quei dati si riferivano a donne in menopausa avanzata o già con problemi cardiaci, non a chi entra in menopausa in età precoce, condizione che di per sé aumenta il rischio cardiovascolare.
La menopausa precoce, che può verificarsi spontaneamente o a seguito di trattamenti medici, priva il corpo degli effetti protettivi degli estrogeni in un momento in cui il cuore e i vasi sanguigni ne hanno ancora bisogno. In questo contesto, la terapia ormonale ripristina un equilibrio fisiologico che riduce l’infiammazione, migliora i livelli di colesterolo e favorisce la salute delle arterie.
Gli esperti precisano che i benefici maggiori si osservano quando la terapia viene avviata entro pochi anni dall’inizio della menopausa precoce, e che la personalizzazione è fondamentale: non tutte le donne ne hanno bisogno, e non tutte reagiscono allo stesso modo. Ma per molte, la TOS può rappresentare un’opportunità di prevenzione oggi supportata da solide evidenze.
Una risposta rassicurante, aprendo la strada a cure più mirate ed efficaci
Il nuovo studio invita quindi a superare i pregiudizi e a riconsiderare la terapia ormonale nel caso di menopausa anticipata, non solo per la qualità della vita — spesso compromessa da sintomi intensi — ma anche per la salute a lungo termine. I benefici sembrano infatti estendersi anche alla protezione ossea e al benessere cognitivo.
Naturalmente, la terapia ormonale va sempre prescritta da un medico, dopo un’attenta valutazione dei fattori di rischio individuali. Ma con i dati attuali, la paura generalizzata sembra non avere più una base scientifica, almeno per questa categoria di donne.
In definitiva, il messaggio dei ricercatori è chiaro: nelle donne in menopausa precoce, la terapia ormonale può salvare il cuore. Dopo anni di incertezza, la scienza offre una risposta rassicurante, aprendo la strada a cure più mirate ed efficaci.
Quando pensiamo a cosa bere per idratarci, la risposta sembra ovvia: l’acqua è la regina dell’idratazione. Ma secondo una ricerca dell’Università di Dundee, in Scozia, non è la bevanda più efficace per mantenere il corpo idratato a lungo. I risultati, pubblicati sul American Journal of Clinical Nutrition, hanno infatti rivelato che alcune bevande comuni possono superare l’acqua in termini di durata dell’idratazione.
Lo studio ha confrontato gli effetti di diverse bevande su un gruppo di volontari, osservando come si comportavano nei 4 ore successive all’assunzione. Sorprendentemente, il latte scremato si è classificato come più idratante dell’acqua naturale. Anche le soluzioni per la reidratazione orale (usate contro la disidratazione da diarrea o sforzi intensi) e persino alcune bevande analcoliche hanno ottenuto punteggi più alti.
Il latte idrata più dell’acqua? Lo studio che cambia le regole
Il motivo sta nella composizione delle bevande: la presenza di zuccheri, elettroliti, proteine o grassi rallenta lo svuotamento gastrico, consentendo al corpo di assorbire meglio i liquidi e trattenerli più a lungo. Per esempio, il latte contiene sodio, potassio e lattosio, elementi che favoriscono l’equilibrio idrico e aiutano il corpo a trattenere l’acqua più a lungo rispetto a una semplice bottiglietta d’acqua.
Questo non significa che l’acqua sia da evitare: resta una scelta fondamentale, priva di calorie e sempre consigliabile in numerose situazioni. Tuttavia, in condizioni particolari – come dopo un’attività fisica intensa, in estate o in caso di disidratazione – optare per bevande ricche di nutrienti può risultare più utile per ristabilire l’equilibrio dei fluidi corporei.
Tra le bevande classificate come più idratanti, oltre al latte scremato, ci sono anche tè freddo leggero, succo d’arancia diluito, e soluzioni saline apposite (spesso usate in ambito sportivo o medico). Viceversa, l’alcol e il caffè in eccesso possono avere l’effetto opposto, aumentando la diuresi e riducendo l’idratazione.
Raffinare il concetto di idratazione
Il concetto chiave, secondo gli autori dello studio, è che idratazione non significa solo bere, ma anche trattenere i liquidi nel corpo. In quest’ottica, scegliere bevande che aiutano il bilancio idrico può fare la differenza, specie per anziani, sportivi o persone con particolari esigenze fisiologiche.
In conclusione, questo studio non mira a “demonizzare” l’acqua, ma a raffinare il concetto di idratazione, ricordandoci che anche ciò che accompagna l’acqua nel nostro bicchiere conta. La prossima volta che ci sentiamo assetati, forse un bicchiere di latte – o una bevanda bilanciata – potrebbe essere la risposta più efficace.
L’umanità si considera la specie dominante sulla Terra, custode della tecnologia più avanzata mai sviluppata sul pianeta. Eppure, una domanda affascinante – quasi inquietante – continua a emergere tra scienziati, filosofi e scrittori: e se non fossimo i primi?
Potrebbe essere esistita, milioni di anni fa, una civiltà tecnologicamente avanzata, poi svanita senza lasciare tracce evidenti?
La “Ipotesi Siluriana”: fantascienza o possibilità scientifica?
A porre per primi la questione in termini scientifici sono stati lo scienziato planetario Gavin Schmidt e l’astrofisico Adam Frank, in un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista International Journal of Astrobiology. La loro teoria, chiamata Ipotesi Siluriana, parte da un paradosso: se una civiltà avanzata fosse esistita milioni di anni fa, oggi ne avremmo davvero prove?
Secondo gli autori, le tracce di una civiltà industriale potrebbero scomparire quasi completamente dopo milioni di anni, soprattutto in un pianeta soggetto a erosione, movimenti tettonici e processi naturali ciclici come la subduzione delle placche.
Che tipo di tracce potrebbero sopravvivere?
Se una civiltà simile alla nostra avesse dominato la Terra nel Mesozoico o addirittura prima, i manufatti e gli edifici sarebbero già scomparsi. Tuttavia, potrebbero rimanere impronte geochimiche nei sedimenti, come variazioni anomale nei livelli di carbonio, metalli rari, plastica fossile o isotopi radioattivi.
Ad esempio, il nostro impatto ambientale – l’Antropocene – sarà visibile nelle rocce del futuro sotto forma di CO₂, microplastiche, pesticidi e cemento. Se ritrovassimo strati simili nel passato, potrebbero rappresentare un indizio.
Un passato che non conosciamo?
Molti restano scettici, e a ragione: nessuna prova concreta di una civiltà tecnologica preumana è mai stata trovata. Tuttavia, la storia della Terra è così lunga – oltre 4,5 miliardi di anni – e la presenza dell’uomo moderno così recente (circa 300.000 anni) che l’idea di una “civiltà fantasma” non può essere del tutto esclusa.
Alcuni ipotizzano che un eventuale evento catastrofico – impatti asteroidali, glaciazioni estreme, inversioni magnetiche – possa aver cancellato tutto, lasciando solo poche tracce chimiche o fossilizzate.
Perché questa ipotesi ci affascina tanto?
Forse perché ci obbliga a relativizzare la nostra centralità nella storia del pianeta. Se altre civiltà sono esistite e si sono estinte, cosa ci rende diversi?
Oppure, al contrario, potrebbe darci una lezione preziosa: la tecnologia non basta a garantire la sopravvivenza, e la memoria storica è fragile. Forse la nostra stessa civiltà sarà un giorno solo un’ombra nei sedimenti del tempo.
In attesa di risposte, la domanda resta aperta. E, forse, anche il mistero.
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Un recente studio internazionale ha rivelato che la Terra potrebbe essere molto più sensibile ai gas serra di quanto si ritenesse in passato. Questo significa che, a parità di emissioni, l’aumento della temperatura globale potrebbe essere più rapido e intenso. I modelli climatici, quindi, potrebbero aver sottovalutato la velocità del cambiamento.
La sensibilità climatica misura di quanto aumenta la temperatura media della Terra in risposta al raddoppio della CO₂ atmosferica. Fino a poco tempo fa, si stimava un range tra 1,5 e 4,5 gradi Celsius. Ora, nuove analisi suggeriscono che il valore potrebbe superare i 5 gradi, un salto potenzialmente drammatico.
La Terra reagisce più del previsto ai gas serra: l’allarme degli scienziati
Grazie a modelli climatici più avanzati e a simulazioni basate su dati paleoclimatici e satellitari, i ricercatori hanno ricalcolato le reazioni del sistema Terra. Questi modelli tengono conto di meccanismi che in passato erano sottovalutati, come l’assorbimento del calore da parte degli oceani e l’effetto amplificante delle nuvole sottili.
Un punto chiave è la presenza dei cosiddetti feedback, cioè meccanismi di amplificazione. Ad esempio, quando il ghiaccio artico si scioglie, lascia spazio a superfici scure che assorbono più calore. Questo effetto a catena accelera il riscaldamento e rende la Terra ancora più reattiva ai gas serra.
Se la sensibilità climatica è maggiore, significa che le attuali soglie di sicurezza – come il limite dei +1,5 °C dell’Accordo di Parigi – potrebbero essere raggiunte prima del previsto. Questo impone un’accelerazione nelle politiche di riduzione delle emissioni e nell’adozione di energie rinnovabili.
Alcuni segnali sono già sotto i nostri occhi
Gli scienziati sottolineano che alcuni segnali sono già sotto i nostri occhi: ondate di calore più frequenti, scioglimento record dei ghiacci, incendi devastanti. Questi fenomeni, sempre più estremi, potrebbero essere solo un’anteprima di ciò che ci attende se non si agisce con decisione.
Alla luce di queste nuove evidenze, la comunità scientifica chiede interventi immediati. Non si tratta solo di “salvare il pianeta”, ma di preservare le condizioni che rendono la Terra abitabile per l’uomo. La finestra d’azione si sta restringendo e ogni anno perso pesa sempre di più.
La maggiore sensibilità ai gas serra non è solo una questione tecnica: è un richiamo alla responsabilità collettiva. Ogni scelta energetica, alimentare o economica può contribuire al cambiamento. Comprendere la reale fragilità del nostro sistema climatico è il primo passo per proteggerlo.
Un nuovo misterioso oggetto ha fatto la sua comparsa nel nostro vicinato cosmico. Si chiama 3I/ATLAS ed è il terzo oggetto interstellare mai rilevato mentre attraversa il Sistema Solare, dopo i celebri ‘Oumuamua (2017) e 2I/Borisov (2019). La sua traiettoria e la sua velocità indicano chiaramente che non proviene dal nostro Sole, ma da un altro sistema stellare.
Un arrivo inaspettato da un altro mondo
3I/ATLAS è stato avvistato il 1° luglio 2025 da un telescopio in Cile e confermato poche ore dopo. La sua scoperta ha sorpreso gli astronomi: non solo perché è raro individuare un oggetto interstellare, ma anche perché questa volta è stato avvistato prima che passasse accanto al Sole.
“È stato come uno scherzo degli dei dell’astronomia”, ha dichiarato con ironia Chris Lintott dell’Università di Oxford. Gli scienziati avevano previsto di dover attendere l’avvio dell’Osservatorio Vera Rubin per individuare un nuovo visitatore alieno. Invece, l’occasione si è presentata in anticipo.
Un’opportunità unica per studiare un altro sistema stellare
3I/ATLAS è diretto verso l’interno del sistema solare ma non rappresenta alcuna minaccia per la Terra: passerà a circa 240 milioni di chilometri di distanza. La sua velocità è così elevata che non verrà catturato dalla gravità solare, e dopo il passaggio scomparirà per sempre nel cosmo.
Grazie al preavviso, gli astronomi potranno monitorarlo per mesi, fino al 2026, ottenendo dati preziosi su composizione, struttura e origine. L’obiettivo è comprenderne l’origine stellare e ricavare informazioni su come si formano i pianeti in altre parti della galassia.
Un “frammento” alieno che racconta storie lontane
Secondo le stime iniziali, 3I/ATLAS potrebbe avere un diametro di circa 20 km. La sua traiettoria “quasi rettilinea” e la velocità lo rendono inconfondibilmente interstellare. Come spiega l’astronoma Pamela Gay, si tratta di una vera e propria “reliquia congelata” di un altro sistema planetario.
A differenza di ‘Oumuamua, osservato solo per poche settimane, e Borisov, una cometa classica ma straniera, 3I/ATLAS offre una finestra senza precedenti sullo spazio profondo. Non solo consente lo studio della sua composizione, ma potrebbe persino aiutare a validare modelli sull’origine della vita e dei materiali organici.
La caccia agli oggetti interstellari è appena cominciata
Con l’avvio imminente dell’Osservatorio Vera Rubin, gli astronomi sperano di rilevare regolarmente oggetti interstellari, e non solo per caso. La scoperta di 3I/ATLAS anticipa questa nuova era. E ci ricorda che, mentre osserviamo il cielo, altri mondi ci passano accanto, anche se solo per un breve saluto cosmico.
Quando si parla di alimentazione e proteine, la carne è spesso vista come la regina della tavola. A parità di peso, contiene infatti molte più proteine delle verdure. Ma perché esiste questa differenza così marcata? La risposta sta nella composizione cellulare e nella funzione biologica dei diversi alimenti.
Le proteine sono macromolecole formate da catene di amminoacidi, fondamentali per la costruzione e il mantenimento dei tessuti del corpo. Sono essenziali per muscoli, enzimi, ormoni e per il sistema immunitario. Ma non tutte le fonti proteiche sono uguali: alcune sono più concentrate, complete e facilmente assimilabili.
Carne vs verdure: perché le proteine non sono tutte uguali
La carne è costituita principalmente da tessuto muscolare animale, ricco di proteine strutturali come l’actina e la miosina. Le verdure, invece, sono composte in gran parte da acqua, fibre e carboidrati complessi, e la loro funzione principale non è il movimento (come nei muscoli), ma la fotosintesi o il sostegno della pianta.
In 100 grammi di carne magra ci possono essere dai 20 ai 30 grammi di proteine complete. Nello stesso peso di verdure come spinaci o broccoli, si trovano solo 2-3 grammi di proteine, spesso incomplete (cioè mancanti di uno o più amminoacidi essenziali). Questo non le rende inutili, ma meno concentrate.
Oltre alla quantità, conta anche la qualità proteica: le proteine della carne sono facilmente digeribili e contengono tutti gli amminoacidi essenziali, mentre quelle vegetali a volte richiedono combinazioni (es. legumi + cereali) per essere complete. La biodisponibilità è quindi un altro punto a favore della carne.
Una dieta ben bilanciata può comunque coprire il fabbisogno proteico anche senza carne
Esistono però fonti vegetali particolarmente ricche di proteine, come soia, quinoa, lenticchie e ceci. Anche le alghe, i semi e alcuni legumi hanno un buon contenuto proteico, sebbene inferiore a quello delle fonti animali. Una dieta ben bilanciata può comunque coprire il fabbisogno proteico anche senza carne.
La differenza tra carne e verdure deriva anche da milioni di anni di evoluzione: gli animali hanno sviluppato muscoli per muoversi e cacciare, mentre le piante hanno investito in strutture leggere ed energeticamente efficienti per crescere e riprodursi. Le funzioni diverse si riflettono anche nel contenuto nutritivo.
Oggi, con l’avvento delle diete vegetariane, vegane e sostenibili, è sempre più importante conoscere le differenze tra le fonti proteiche. Comprendere perché la carne contiene più proteine aiuta non solo a sfatare falsi miti, ma anche a costruire un’alimentazione equilibrata, consapevole e adatta alle esigenze di ciascuno.
Le Hawaii si stanno spostando. No, non è fantascienza: è geologia. Ogni anno, questo arcipelago vulcanico dell’Oceano Pacifico si avvicina al Giappone di circa 10 centimetri. Il fenomeno, misurato con precisione dai satelliti GPS, è una testimonianza concreta di quanto la superficie terrestre sia dinamica e viva, anche se spesso impercettibile ai nostri occhi.
Alla base di questo lento ma costante movimento c’è il funzionamento delle placche tettoniche, enormi porzioni della crosta terrestre che galleggiano sul mantello fluido sottostante. Le Hawaii si trovano sulla placca del Pacifico, la più grande tra quelle che compongono la litosfera del pianeta. Questa placca si muove costantemente verso nord-ovest, in direzione del Giappone.
Le Hawaii si avvicinano al Giappone: ecco perché si muovono ogni anno
Il movimento non è una novità: da milioni di anni, la placca del Pacifico si sposta a una velocità media di 7-10 centimetri all’anno. È proprio grazie a questo processo che si sono formate le isole Hawaii, una dopo l’altra, mentre la placca scivolava sopra un “punto caldo” nel mantello terrestre, che produce magma in modo continuo. Quando il magma sale in superficie, forma nuove isole vulcaniche.
Questo significa che le Hawaii più giovani sono quelle più a sud-est, come Big Island, dove si trova ancora un’intensa attività vulcanica. Le isole più vecchie, come Kauai, sono invece più a nord-ovest e si allontanano progressivamente dal punto caldo, erodendosi nel tempo. È una sorta di nastro trasportatore geologico che plasma l’arcipelago e lo sposta lentamente sull’oceano.
La direzione verso il Giappone è una coincidenza geografica: le Hawaii non arriveranno mai veramente a toccare le coste nipponiche. Tuttavia, il fatto che si stiano muovendo dimostra quanto sia attiva la Terra sotto di noi. Questi movimenti, infatti, sono gli stessi che causano terremoti, formazione di catene montuose e apertura di nuovi oceani.
Prevenzione dei disastri naturali
La misurazione precisa di questi spostamenti è possibile grazie alla tecnologia GPS ad alta precisione, che permette ai geologi di monitorare il movimento delle placche in tempo reale. Queste informazioni sono fondamentali anche per la prevenzione dei disastri naturali, perché aiutano a comprendere meglio le aree a rischio sismico o vulcanico.
Il caso delle Hawaii è un esempio affascinante di come la geologia possa raccontare storie di trasformazioni lente ma profonde. È un invito a guardare il nostro pianeta non come un’entità statica, ma come un sistema in continuo mutamento, dove anche ciò che sembra immobile si muove con forza e determinazione.
In conclusione, le Hawaii non stanno ferme: si muovono, lentamente ma inesorabilmente, avvicinandosi al Giappone di 10 centimetri l’anno. Un piccolo spostamento su scala umana, ma una prova gigantesca del potere della Terra di modellarsi, evolversi e sorprendere.
Un recente studio suggerisce che una particolare conformazione del cranio, riscontrata in persone affette dalla sindrome di Chiari di tipo 1, potrebbe essere una traccia genetica lasciata dai Neanderthal nel nostro DNA. Questo legame evolutivo potrebbe spiegare perché così tante persone soffrono di mal di testa, dolori cervicali e altri disturbi neurologici.
La sindrome di Chiari e la compressione cerebrale
La malformazione di Chiari si verifica quando la base del cranio è più piccola e piatta rispetto alla norma. Questo provoca lo schiacciamento del cervelletto – la parte del cervello responsabile dell’equilibrio e della coordinazione – all’interno del canale spinale del collo.
Si tratta di una condizione abbastanza comune: si stima che 1 persona su 100 ne sia affetta, sebbene molti non manifestino sintomi evidenti. Quando presenti, i disturbi includono mal di testa ricorrenti, dolore al collo, apnea notturna, vertigini e intorpidimento degli arti.
Un’intuizione nata in sala operatoria
È stato il neurochirurgo brasiliano Yvens Barbosa Fernandes il primo a notare, circa 15 anni fa, una strana somiglianza tra i crani dei suoi pazienti e quelli dei Neanderthal, in particolare per quanto riguarda l’osso occipitale. Questa osservazione ha spinto il ricercatore a ipotizzare un collegamento evolutivo diretto.
Lo studio recentemente pubblicato su Evolution, Medicine, and Public Health ha testato quella teoria attraverso modelli 3D digitali di crani moderni e fossili antichi.
Il confronto con i crani preistorici
I ricercatori hanno confrontato i crani di 46 persone affette da Chiari con quelli di 57 individui senza la malformazione, analizzando accuratamente le loro scansioni TC. I risultati sono stati poi messi a confronto con otto crani fossili di Neanderthal, Homo erectus, Homo heidelbergensis e primi Homo sapiens.
La scoperta chiave è stata che solo i crani dei Neanderthal presentavano la stessa conformazione della base cranica osservata nei pazienti con Chiari. Le altre specie antiche, compresi i primi sapiens, avevano strutture compatibili con i crani moderni sani.
Una firma genetica nell’osso occipitale
Secondo la ricercatrice Kimberly Plomp, questa scoperta è una nuova prova di come i tratti genetici dei Neanderthal sopravvissuti all’incrocio con l’Homo sapiens possano ancora oggi influenzare la nostra salute.
È un retaggio che, sebbene affascinante dal punto di vista evolutivo, può avere conseguenze invalidanti per chi ne porta i segni nel cranio. In questo senso, la paleontologia e la medicina si incontrano per spiegare i misteri del presente attraverso il passato remoto.
Come ha concluso Barbosa Fernandes: “Se c’è meno spazio alla base del cranio, c’è meno spazio per il cervello moderno. E il risultato è un potenziale problema neurologico”.
Quando l’evoluzione ha un prezzo
Non tutto ciò che abbiamo ereditato dai nostri antenati è un vantaggio. In questo caso, una semplice variazione nella forma del cranio, trasmessa dai Neanderthal, potrebbe ancora oggi influire sulla qualità della vita di milioni di persone. E ora, grazie alla scienza, ne conosciamo finalmente l’origine.
Quando Sony ha lanciato la linea ULT, si è rivolta a un pubblico esigente, attento a ottenere bassi potenti e una resa sonora coinvolgente anche in dispositivi compatti e portatili. Il modello ULT Field 3 si è rapidamente distinto come un perfetto compromesso tra performance elevate e portabilità, in grado di adattarsi a qualsiasi ambiente, dagli spazi aperti della natura fino ai contesti urbani più dinamici. Lo abbiamo testato a fondo, e la nostra analisi evidenzia come questo speaker riesca a offrire molto più di quello che ci si aspetta in questa fascia di prezzo.
Design robusto e certificazioni di livello militare
Il design del Field3 è improntato a un’estetica solida, quasi militare, che sottolinea l’affidabilità e la durabilità del dispositivo. La struttura principale è realizzata in policarbonato rigido, rinforzato da inserti in gomma morbida che non solo aumentano la resistenza agli urti ma migliorano anche la presa. Le dimensioni sono contenute, con una lunghezza di circa 25centimetri e un peso di 1,2 kg distribuito in modo equilibrato. Questa combinazione rende il Field 3 facilmente trasportabile senza però sacrificare la solidità necessaria per affrontare le condizioni estreme.
Il dispositivo è certificato con lo standard IP67, che garantisce protezione totale da polvere e immersione in acqua fino a 1 metro di profondità per 30minuti. Ma Sony non si è fermata qui: lo speaker è stato testato anche per la resistenza all’acquasalata, un dettaglio cruciale per chi lo utilizza in ambienti marini o vicino alla spiaggia, dove la corrosione può essere un problema serio. A livello di robustezza meccanica, è stato sottoposto a test di caduta militari (standard MIL–STD–810H), il che significa che può sopportare urti, vibrazioni e condizioni ambientali estreme senza compromettere la funzionalità.
Architettura acustica: un sistema a due vie bilanciato e performante
Dal punto di vista tecnico, il cuore pulsante del Field 3 è costituito da un woofer ovale da 86 x 46 millimetri e un tweeter da 20 millimetri, entrambi progettati per assicurare una riproduzione sonora pulita e potente. Questo sistema a due vie è supportato da due radiatori passivi posizionati lateralmente, che amplificano le basse frequenze e aumentano la pressione sonora senza introdurre distorsioni anche a volumi elevati.
La configurazione degli speaker è calibrata per offrire una risposta in frequenza ampia, da 20 Hz fino a 20 kHz, coprendo quindi l’intero spettro udibile dall’orecchio umano. Ciò permette di riprodurre fedelmente sia i suoni più bassi e profondi che quelli più acuti e dettagliati, senza sbilanciamenti. La sensibilità, stimata intorno a 80dB, e la potenza massima di uscita, che raggiunge i 30 watt (15 watt per canale), assicurano che il Field 3 possa riempire di suono ambienti di medie dimensioni, come un giardino o una terrazza, senza fatica.
Tecnologia ULT Power Sound: bassi potenti e pressione sonora elevata
Uno degli aspetti più caratteristici di questo speaker è la tecnologia ULT Power Sound, attivabile tramite un pulsante dedicato. Questa modalità non si limita a enfatizzare i bassi, ma lavora in modo sofisticato aumentando la pressione sonora delle frequenze più basse, donando un effetto quasi “live” al suono. La pressione sonora può arrivare fino a 93 decibel, un valore considerevole per uno speaker portatile, che rende l’ascolto più coinvolgente e vibrante.
Grazie al design avanzato degli speaker e al lavorocombinato dei radiatori passivi, anche con il volume al massimo la distorsione rimane contenuta e il suono mantiene una buona nitidezza. Questo è particolarmente importante per chi ama ascoltare generi come EDM, hip-hop o musica rock, dove i bassi profondi e potenti sono protagonisti.
Sound Field Optimization: adattamento intelligente dell’audio all’ambiente
La tecnologia Sound Field Optimization rappresenta un punto di svolta per l’esperienza d’ascolto outdoor. Il Field 3 è dotato di sensori che analizzano in tempo reale l’ambiente circostante e la superficie su cui è posizionato lo speaker. Questo permette di regolare automaticamente l’equalizzazione e i parametri audio per garantire una resa ottimale in ogni situazione.
Che lo speaker sia appoggiato su un tavolorigido, sul terreno irregolare di una spiaggia o sospeso tramite la tracolla integrata, la tecnologia mantiene il bilanciamento tonale e la profondità sonora, evitando cali di qualità o eccessi di risonanza che spesso si riscontrano con dispositivi portatili meno sofisticati.
Connettività avanzata: Bluetooth 5.2, multipoint e Fast Pair
Il Sony ULT Field 3 utilizza il Bluetooth versione 5.2, che assicura una connessione stabile e a basso consumo energetico, con una portata di circa 10 metri in ambienti aperti. Supporta i codec audio SBC e AAC, diffusi e compatibili con la maggior parte dei dispositivi mobili. Anche se non dispone dei codec ad alta risoluzione come aptX o LDAC, la qualità audio rimane fedele e piacevole in ogni tipo di streaming.
Una funzionalità particolarmente utile è il supporto al multipoint, che permette di collegare contemporaneamente due dispositivi Bluetooth. Questo consente di passare rapidamente da uno smartphone a un tablet o laptop senza disconnessioni manuali, migliorando la comodità d’uso quotidiana. Per gli utenti Android, è presente la funzione Fast Pair, che rende il processo di accoppiamento immediato e senza problemi, riconoscendo automaticamente lo speaker nelle vicinanze e permettendo un setup rapido.
Party Connect e modalità stereo per un’esperienza immersiva
Il Field 3 offre anche modalità avanzate per la gestione audio multi-speaker. Con la funzione Party Connect è possibile sincronizzare fino a 100 dispositivi compatibili, creando un sistema audio diffuso e sincronizzato, perfetto per feste o eventi all’aperto di grandi dimensioni. La sincronizzazione è precisa e garantisce un suono uniforme in tutta l’area coperta. Alternativamente, con due unità Field 3, è possibile attivare la modalità Stereo Pair, che trasforma l’esperienza di ascolto in un vero e proprio sistema stereo wireless, con canali separati per destra e sinistra, migliorando la spazialità e la definizione musicale.
Batteria e ricarica: autonomia estesa e powerbank integrato
Il Sony ULTField3 è alimentato da una batteria interna agli ioni di litio da 5000mAh, che assicura fino a 24 ore di riproduzione continua con volume moderato e modalità ULT disattivata. Anche con la modalità bassboost attiva e un volume elevato, la durata supera comodamente le 15 ore, un risultato molto competitivo per questa categoria di speaker. La ricarica avviene tramite una porta USB-C che supporta la ricarica rapida a 20 watt. Bastano solo 10 minuti per ottenere circa 2 ore di autonomia, ideale per ricariche veloci durante le pause.
Interessante è la funzione di output USB-C, che consente di utilizzare il Field 3 come un powerbank per ricaricare dispositivi esterni come smartphone o auricolari Bluetooth, a patto che la carica residua dello speaker sia sufficiente. Questa caratteristica aumenta notevolmente la versatilità del dispositivo, rendendolo un vero compagno di viaggio.
Controlli fisici e app: semplicità e personalizzazione
I controlli fisici sul corpo dello speaker sono stati progettati per essere facilmente accessibili e operativi anche con mani bagnate o guanti. Permettono di accendere lo speaker, regolare il volume, attivare/disattivare la modalità ULT, gestire il pairingBluetooth e il PartyConnect senza complicazioni.
Per chi preferisce una gestione più approfondita, l’applicazione Sony | Music Center consente di personalizzare l’equalizzazione tramite un equalizzatore grafico a sette bande, aggiornare il firmware e monitorare lo stato della batteria. L’interfaccia è semplice e intuitiva, accessibile sia a utenti poco esperti che a chi desidera una regolazione più tecnica.
Conclusioni: un bilanciamento perfetto tra potenza, portabilità e resistenza
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Il Sony ULT Field 3 emerge come uno dei migliori speaker Bluetooth portatili in fascia media/alta, grazie a un design robusto e certificato, a una resa sonora potente e dettagliata e a una serie di funzioni intelligenti che ne ampliano la versatilità. La combinazione di un sistema acustico a due vie, radiatori passivi e tecnologia ULT Power Sound consente di ottenere bassi profondi e potenti senza sacrificare la chiarezza delle medie e alte frequenze. La SoundField Optimization garantisce un suono bilanciato e adattivo, una rarità in questa categoria.
Connettività Bluetooth 5.2, multipoint, PartyConnect e FastPair offrono un’esperienza d’uso moderna e comoda, mentre la batteria da 5000 mAh e la ricarica rapida rendono il Field 3 affidabile anche nelle giornate più lunghe.Questo speaker è un compagno ideale per chi ama la musica in movimento, senza rinunciare alla qualità e alla robustezza, sia in contesti outdoor che indoor.
Quando si parla di Alzheimer, si cerca di guardare ovunque perché ancora non si conosco tutti gli aspetti della malattia tanto che di fatto non si conosce ancora un po’ preciso per agire. Una nuova ricerca sta guardando alle riserve glucosio nel cervello che sembra avere un ruolo più grande di quello che si pensava in precedenza. Si parla del ruolo che hanno nella degenerazione patologia dei neuroni, aspetto importante proprio con un morbo del genere.
Quando si pensa all’Alzheimer, bisogna parlare dell’accumulo di proteine tau. Questo è uno dei pochi punti certi che comunque aprono a nuove domande come al fatto se sono un sintomo o la causa. Il nuovo studio collega il glucosio e a come interagisce alle proteine appena citate.
Come il morbo di Alzheimer può essere influenzato dal glucosio
Analizzando questo elemento nel cervello, anche in pazienti con una diagnosi di Alzheimer, hanno scoperto un meccanismo nuovo. Le proteine Tau vanno a interferire con la normale degradazione e successivamente utilizzo del glicogeno nell’organo portando a un accumulo pericoloso che a sua volta riduce le barriere protettive dei neuroni.
Le parole dei ricercatori: “Scoprendo come i neuroni gestiscono lo zucchero, potremmo aver scoperto una nuova strategia terapeutica: una che agisce sulla chimica interna delle cellule per combattere il declino legato all’età. Mentre la nostra società continua ad invecchiare, scoperte come queste offrono la speranza che una migliore comprensione e forse un riequilibrio del codice nascosto dello zucchero nel nostro cervello potrebbe sbloccare potenti strumenti per combattere la demenza.”
Invecchiare in salute non è solo una questione genetica, ma il risultato di scelte quotidiane che iniziano molto prima della vecchiaia. Il concetto di healthy ageing — letteralmente “invecchiamento sano” — si riferisce a un processo che consente di mantenere benessere fisico, mentale e sociale nel tempo, riducendo il rischio di malattie croniche e mantenendo l’autonomia il più a lungo possibile. È un approccio preventivo e proattivo che può iniziare già dalla giovinezza.
Uno dei pilastri dell’healthy ageing è l’alimentazione. Una dieta equilibrata, ricca di frutta, verdura, cereali integrali, proteine magre e grassi “buoni”, aiuta a prevenire patologie come diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. Il modello mediterraneo, in particolare, è considerato uno dei più efficaci per favorire la longevità, grazie all’apporto di antiossidanti e nutrienti essenziali.
Healthy ageing: la strategia per invecchiare in salute partendo da giovani
Ma non basta mangiare bene: anche il movimento è fondamentale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata — come camminata veloce, bicicletta o nuoto — possono migliorare la salute cardiovascolare, mantenere la massa muscolare e ridurre il rischio di cadute e disabilità nella terza età. L’esercizio, inoltre, favorisce la produzione di endorfine, con benefici sull’umore e sulle capacità cognitive.
L’healthy ageing coinvolge anche la sfera mentale e sociale. Coltivare relazioni, avere hobby, imparare cose nuove o dedicarsi al volontariato contribuisce al benessere emotivo e cognitivo. La stimolazione intellettuale costante, infatti, è un’arma potente contro il declino cognitivo e la solitudine, che possono incidere negativamente sulla salute generale.
Anche la qualità del sonno gioca un ruolo cruciale. Dormire bene aiuta a rigenerare l’organismo, rafforza il sistema immunitario e migliora le funzioni cerebrali. Problemi cronici di insonnia, al contrario, sono spesso collegati a disturbi dell’umore, aumento del rischio cardiovascolare e peggioramento della memoria. Per questo è importante instaurare routine serali sane e mantenere ritmi regolari.
La prevenzione è un tassello chiave
La prevenzione è un altro tassello chiave: sottoporsi a controlli periodici, monitorare la pressione, il colesterolo e i livelli di glicemia permette di intervenire tempestivamente in caso di anomalie. Anche la salute orale, spesso trascurata, è fondamentale per evitare infezioni e problemi nella masticazione, che possono compromettere l’alimentazione.
Non bisogna dimenticare l’importanza di evitare comportamenti a rischio: fumo, alcol in eccesso e sedentarietà sono tra i principali nemici dell’invecchiamento sano. Abbandonare queste abitudini il prima possibile ha un impatto concreto sull’aspettativa e sulla qualità della vita, anche in età avanzata.
Infine, l’healthy ageing è una responsabilità collettiva. Le istituzioni, le città e i servizi sanitari possono creare ambienti favorevoli — con spazi verdi, piste ciclabili, alimentazione accessibile e politiche inclusive — per sostenere le persone in tutte le fasi della vita. Perché invecchiare bene è una conquista possibile, se si comincia a costruirla già da giovani.
L’Inferno secondo l’olfatto: tra zolfo, fuoco e… cani morti
Nei sermoni del XVI e XVII secolo, l’Inferno veniva descritto come un luogo di tormento eterno, pieno di fuoco e zolfo. Ma alcuni testi dell’epoca andavano oltre, evocando immagini olfattive scioccanti, come “un milione di cani morti”. Una descrizione che oggi, grazie alla tecnologia e all’intelligenza artificiale, possiamo quasi… annusare.
Nasce ODEUROPA: la biblioteca digitale degli odori
Il progetto europeo ODEUROPA ha dato vita a una vera e propria “biblioteca degli odori”, in grado di restituirci le tracce olfattive della storia.
Con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, i ricercatori hanno analizzato oltre 167.000 testi e 43.000 immagini storiche in sei lingue, individuando 2,4 milioni di riferimenti a odori in contesti religiosi, urbani, naturali e quotidiani.
L’obiettivo? Ricostruire il patrimonio olfattivo europeo e creare strumenti per farlo vivere nei musei e nelle esperienze culturali.
Odori ricreati: dal sacro al disgustoso
Tra i profumi storici ricreati dal team:
L’incenso e la mirra dei Re Magi, utilizzati nei rituali religiosi antichi.
I canali di Amsterdam di secoli fa, famosi non solo per l’acqua ma anche per gli odori stagnanti.
L’Inferno stesso, ricreato sulla base di documenti religiosi, letterari e iconografici.
Curiosamente, alcuni visitatori europei trovavano l’odore dell’Inferno vagamente attraente, paragonandolo all’odore della carne grigliata. I visitatori giapponesi, invece, l’hanno giudicato “completamente disgustoso”.
Il kit olfattivo: gratta e annusa la storia
ODEUROPA non si è limitato ai laboratori. Ha creato strumenti per portare gli odori nei musei, nei siti storici e nei tour urbani:
Una cassetta degli attrezzi del patrimonio olfattivo, con aromi e luoghi storicamente associati a certi odori.
Un tour olfattivo autoguidato di Amsterdam, con mappe “gratta e annusa”.
Un kit narrativo olfattivo per operatori culturali e museali, pensato per arricchire l’esperienza immersiva del pubblico.
Come spiega la storica Inger Leemans, “il progetto ha unito storia, chimica, storia dell’arte e scienza del patrimonio per creare un ponte tra passato e sensi”.
Una storia da annusare
L’olfatto è il senso più trascurato nella narrazione storica. Eppure, è quello più legato alla memoria e all’emozione. Grazie all’AI e a progetti innovativi come ODEUROPA, il passato si fa multisensoriale, restituendoci emozioni che nessun libro di storia può contenere.
Per scoprire davvero com’era l’Inferno del Seicento, oggi basta chiudere gli occhi… e respirare.
Entro il 2028, la NASA tornerà sulla Luna con la missione Artemis III, portando per la prima volta una donna e una persona di colore sul suolo lunare. Ma non si tratterà solo di una visita temporanea: l’obiettivo a lungo termine è creare insediamenti abitativi stabili, capaci di ospitare astronauti per periodi prolungati.
Costruire abitazioni nello spazio, però, non è come edificare sulla Terra. I materiali da costruzione tradizionali sono troppo pesanti da trasportare e il costo di invio nello spazio è proibitivo. La soluzione? Usare la polvere lunare stessa: la regolite.
La regolite come materia prima: sfide e opportunità
Il principio si chiama ISRU (Utilizzo delle Risorse In Situ): sfruttare ciò che si trova sul posto. In questo caso, il suolo lunare viene trasformato in mattoni tramite una tecnica chiamata sinterizzazione. Ma mentre molte tecnologie additive, come la stampa 3D, risultano inefficaci nelle condizioni estreme lunari, un metodo si sta dimostrando promettente: la sinterizzazione luminosa.
Questa tecnica sfrutta la luce solare concentrata per fondere la regolite e creare componenti da costruzione simili alla ceramica. Il vantaggio? Niente materiali extra da trasportare né fonti energetiche complesse.
Luce solare, mattoni e habitat futuristici
L’energia solare, abbondante nelle zone illuminate della Luna, diventa così un alleato fondamentale. Invece di stampare intere strutture — un processo ancora troppo complesso — il nuovo approccio punta alla produzione modulare di mattoni, più semplice e facilmente scalabile.
Collaborazioni come quella tra l’ESA e lo studio Foster + Partners mostrano già concept avveniristici di habitat lunari stampati in 3D, ma ancora lontani dalla realizzazione. La NASA, invece, sembra puntare su un modello più sobrio e realizzabile: edifici costruiti con mattoni cotti al sole lunare.
Dal sogno alla realtà: prossimi passi
Il team di ricerca dell’Università dell’Arkansas sta perfezionando i parametri per ottimizzare il processo. I prototipi verranno testati in laboratorio con simulanti di regolite, per verificare la resistenza meccanica e la durabilità dei materiali.
Non siamo ancora pronti a costruire villaggi lunari, ma ogni esperimento avvicina l’uomo a una realtà dove vivere sulla Luna non sarà più fantascienza, ma ingegneria avanzata illuminata – letteralmente – dal Sole.
Il periodo dei saldi e iniziato e Amazon ha pensato bene di sorprendere i suoi clienti lanciando una marea di offerte tecnologiche. Che stiate cercando uno smartphone, un tablet o un nuovo computer, l’e-commerce ha ciò che fa per voi ad un prezzo speciale. In questo articolo andiamo ad elencare alcune delle proposte scontate da non farsi assolutamente scappare.
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Le ondate di calore sono sempre più frequenti e intense, mettendo a dura prova il benessere quotidiano, soprattutto nei mesi estivi. Affrontare il caldo in modo intelligente significa adottare uno stile di vita che favorisca l’idratazione, la leggerezza e il recupero energetico. Non servono soluzioni estreme, ma una serie di accorgimenti semplici e mirati può fare davvero la differenza.
Il primo passo per combattere le alte temperature è l’alimentazione. Durante il caldo, il corpo consuma più energia per termoregolarsi, e una dieta pesante può peggiorare la sensazione di spossatezza. È quindi consigliabile puntare su cibi freschi, leggeri e ricchi di acqua, come frutta, verdura, yogurt, insalate di cereali integrali e pesce. Meglio evitare piatti elaborati, fritti o troppo ricchi di sale.
Caldo estivo: guida pratica per restare in forma tra dieta, esercizi e relax
L’idratazione è fondamentale: bere almeno 1,5-2 litri d’acqua al giorno aiuta a prevenire la disidratazione, i colpi di calore e la stanchezza. Ottimi alleati anche tè freddi non zuccherati, tisane rinfrescanti o centrifugati di frutta e verdura. Attenzione però a non abusare di bevande zuccherate o alcolici, che possono disidratare ulteriormente.
Anche l’attività fisica va adattata alle condizioni climatiche. L’esercizio è benefico anche in estate, ma è meglio praticarlo nelle ore più fresche della giornata — la mattina presto o la sera — scegliendo attività a basso impatto come camminate all’ombra, yoga, stretching o nuoto. Sudare troppo sotto il sole può causare affaticamento e cali di pressione.
Il riposo gioca un ruolo cruciale nel benessere estivo. Le notti afose possono disturbare il sonno e contribuire alla stanchezza accumulata. Per dormire meglio, è utile rinfrescare la stanza con ventilazione naturale, indossare indumenti leggeri in cotone e limitare l’uso di dispositivi elettronici prima di coricarsi. Anche un pisolino breve durante il giorno può aiutare a recuperare energia.
Trasformando l’estate in una stagione da vivere con leggerezza e attenzione alla salute
Vestirsi in modo adeguato è un’altra strategia da non sottovalutare: abiti leggeri, chiari e traspiranti aiutano a regolare la temperatura corporea. Inoltre, proteggere la pelle con creme solari e cappelli nelle ore di punta riduce il rischio di scottature e colpi di sole.
Infine, è importante ascoltare il proprio corpo. Segnali come vertigini, nausea, sete eccessiva o crampi possono indicare un principio di disidratazione o surriscaldamento. In questi casi, è fondamentale trovare un ambiente fresco, bere acquae riposare. Ignorare questi segnali può portare a conseguenze più serie, soprattutto per anziani, bambini e persone con patologie croniche.
Sopravvivere al caldo non è solo una questione di resistenza, ma di adattamento consapevole. Con piccole ma efficaci strategie, è possibile affrontare anche le giornate più afose con energia e benessere, trasformando l’estate in una stagione da vivere con leggerezza e attenzione alla salute.
Apple sta pianificando di aggiornare ben 5 dei suoi prodotti con la nuova generazione di chip M, l’M5. Nonostante l’M4 garantisca performance mozzafiato, la mela morsicata non intende fermarsi. I prodotti che riceveranno l’aggiornamento saranno: MacBook Pro, Mac mini, iMac, Vision Pro e iPad Pro. Andiamo a scoprire tutti i dettagli a riguardo.
I leaker sembrano avere pochi dubbi a riguardo, il tanto chiacchierato chip M5 debutterà sul mercato negli ultimi mesi del 2025. Molto probabilmente Apple annuncerà il suo arrivo su diversi positivi tramite comunicato stampa a partire dal prossimo ottobre. Ecco cosa aspettarsi.
Apple: i 5 prodotti che riceveranno il chip M5 entro quest’anno
MacBook Pro
Non ci saranno grosse novità per la prossima generazione di MacBook Pro. Stando agli ultimi rumor, l’unica novità sarà proprio l’implementazione del chip M5. Le reali novità, tra cambiamento estetico e display OLED (oltre che al chip M6) arriveranno alla fine del 2026.
Mac mini
Anche in questo caso non ci saranno particolari novità, se non l’introduzione del chip M5. Mac mini sarà il dispositivo Apple più economico ad avere il chip M di ultima generazione.
iMac
Una nuova generazione di iMac dotata di chip M5 potrebbe arrivare in campo insieme ai MacBook Pro e Mac mini. Anche qui, nessun cambiamento dal punto di vista estetico rispetto ai modelli precedenti.
Vision Pro
L’attuale modello di Vision Pro presenta al suo interno il chip M2. Stando a quanto dichiarato da alcuni analisti, Apple aggiornerà il dispositivo dotandolo di chip M5 entro la fine dell’anno. Non si tratterà di una vera e propria nuova generazione, ma solo di un miglioramento del chip interno.
iPad Pro
Si tratterà decisamente del prodotto che riceverà più novità quest’anno. Oltre ad ottenere il chip M5, entrambe le versioni da 11 e 13 pollici potrebbero ricevere un nuovo design con cornici super ridotte grazie ad una nuova tecnologia di produzione del display OLED.
Un ennesimo studio sui farmaci semaglutide ne sta esaltando le qualità oltre allo scopo per cui sono stati inizialmente sviluppati. Se sono nati come farmaci contro il diabete, sono in fretta risultati eccezionali soprattutto per far perdere peso tanto da quasi risultare miracolosi, ma non solo. Anche dal punto di vista della salute sembrano avere numerosi benefici e tra questi c’è la capacità di mitigare gli effetti dell’emicrania.
L’emicrania è una di quelle condizioni in cui al momento non esiste un’effettiva cura. Lo studio pilota, quindi piccolo, si è basato su 31 pazienti che soffrono di questa condizione che hanno ricevuto giornalmente un farmaco semaglutide per dodici settimane. Durante questo periodo, i giorni con episodi di mal di testa al mese sono diminuiti da una media di 19,8 al giorno a 10.7 volte.
L’emicrania trattata con un farmaco?
In questo studio specifico, le persone con emicrania sono stati trattati una sostanza chiamata liraglutide che ha dimostrato di essere efficace dove altri farmaci non sono in grado. Un fattore importante, visto da altri studi, sembra la capacità di ridurre la pressione intracranica nel cervello.
Le parole dei ricercatori: “I nostri risultati mostrano che liraglutide può essere efficace nel trattamento dell’emicrania cronica o ad alta frequenza non responsiva nei pazienti obesi, e che questo effetto è indipendente dalla perdita di peso. Questo suggerisce… che i meccanismi che determinano l’efficacia di liraglutide nella prevenzione dell’emicrania possano operare indipendentemente dai significativi effetti metabolici. Un numero considerevole di pazienti si trova ancora ad affrontare un bisogno insoddisfatto, soprattutto quando i farmaci preventivi si dimostrano inefficaci.”
La fisica moderna è divisa in due regni. Da un lato, la relatività generale, che spiega perfettamente il comportamento di pianeti, galassie e buchi neri. Dall’altro, la meccanica quantistica, che regola il mondo delle particelle subatomiche.
Entrambe funzionano… ma non funzionano insieme. Il sogno di un’unica teoria del tutto resta ancora irrealizzato.
La proposta radicale: tempo tridimensionale
Secondo il geofisico Gunther Kletetschka, dell’Università dell’Alaska, il problema è a monte: abbiamo frainteso la natura del tempo.
Nel suo nuovo studio pubblicato su Reports in Advances of Physical Science, propone un’idea audace: il tempo non ha una sola dimensione, ma tre, proprio come lo spazio.
Questo porterebbe il totale delle dimensioni dell’universo da quattro (3D spazio + 1D tempo) a sei (3D spazio + 3D tempo).
Tre tempi, tre scale
Nel modello di Kletetschka, le tre dimensioni temporali si sviluppano su scale diverse:
Tempo quantistico: istantaneo, imprevedibile, regola gli eventi microscopici.
Tempo umano: fluido e lineare, quello che viviamo ogni giorno.
Tempo cosmico: vastissimo, su scala di miliardi di anni.
Queste tre dimensioni sarebbero ortogonali tra loro, cioè indipendenti, ma interconnesse: una vera e propria tela temporale su cui si dipinge la realtà.
Una teoria con basi sperimentali
A differenza di modelli precedenti, il lavoro di Kletetschka non è solo teorico. Il suo approccio matematico permette di calcolare le masse di particelle già note (come quark top, muoni, elettroni) con valori coerenti con quelli osservati.
Inoltre, fa previsioni verificabili: ad esempio, anticipa piccole variazioni nella velocità delle onde gravitazionali e stima le masse dei neutrini.
Se la teoria fosse confermata…
Una simile scoperta potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione dell’universo. Significherebbe riscrivere la fisica, unificando due teorie apparentemente inconciliabili e aprendo nuove strade nella cosmologia, nella fisica delle particelle e persino nella tecnologia futura.
Come afferma lo stesso Kletetschka:
“Il tempo tridimensionale diventa la tela dell’universo. Lo spazio è solo la pittura.”
In sintesi
🧠 Una nuova teoria propone che il tempo abbia tre dimensioni.
⚖️ Questo modello potrebbe unificare la fisica quantistica e la relatività generale.
🔬 Prevede fenomeni osservabili e misurabili, come masse di particelle e onde gravitazionali.
🌌 Potrebbe rivoluzionare la nostra visione della realtà.
Il tempo non è più solo una linea
Da Einstein a oggi, abbiamo immaginato il tempo come una freccia unica, che scorre in avanti. Ma se fosse invece una struttura a tre dimensioni, fluida e intrecciata con lo spazio?
Forse, per risolvere il più grande enigma della fisica moderna, dobbiamo solo guardare il tempo da un’altra angolazione.