Quando pensiamo all’evoluzione della fauna selvatica nelle città, immaginiamo solitamente l’inquinamento, il rumore o la cementificazione. Ma la scienza ci dice che anche fattori più umani – come guerra, politica e religione – giocano un ruolo decisivo nell’adattamento e nella sopravvivenza degli animali in ambienti urbani.
Diversi studi condotti in città di tutto il mondo hanno mostrato che i conflitti armati modificano in modo diretto ed evidente il comportamento degli animali. Durante periodi di guerra, la riduzione del traffico e dell’attività umana può portare a un ritorno di specie selvatiche nei centri abitati. Ma a lungo termine, le conseguenze sono spesso drammatiche: distruzione degli habitat, inquinamento da metalli pesanti e pericolo costante per la fauna.
Quando l’uomo modella la natura: come città, conflitti e culture cambiano la fauna selvatica
La politica urbanistica è un altro potente motore evolutivo. Città con legislazioni ambientali severe tendono a preservare corridoi verdi e zone protette, facilitando la sopravvivenza e l’adattamento delle specie. Al contrario, scelte di sviluppo aggressive o disordinate possono frammentare gli habitat, costringendo gli animali a modificare rapidamente le proprie abitudini o a scomparire.
Anche la religione influenza l’evoluzione urbana della fauna in modi sorprendenti. In molte culture, alcune specie animali sono considerate sacre o intoccabili. Questo porta, ad esempio, alla proliferazione di scimmie in città indiane, protette da norme religiose, o di cinghiali nelle città mediorientali dove la caccia è vietata per motivi religiosi o culturali.
Queste dinamiche culturali e sociali modificano l’equilibrio ecologico e spingono alcune specie a sviluppare nuove strategie di sopravvivenza. Alcuni uccelli hanno cambiato i loro richiami per farsi sentire nel rumore urbano, mentre roditori e volpi stanno evolvendo comportamenti più “urbani”, diventando più attivi di giorno o più tolleranti verso l’uomo.
Molto più di una questione ecologica
Un caso emblematico è quello degli animali a Kiev durante il conflitto in Ucraina: mentre alcuni sono fuggiti, altri – come volpi, gatti selvatici e uccelli – hanno colonizzato zone prima troppo affollate. Alcuni scienziati parlano di “evoluzione culturale accelerata”, una forma di adattamento spinta dalla rapida trasformazione dell’ambiente urbano causata da eventi sociali.
Non è un’evoluzione casuale: gli animali che sopravvivono meglio in città sono spesso quelli capaci di interpretare i segnali umani, sfruttare le infrastrutture e modificare il proprio comportamento in tempi brevissimi. La selezione naturale avviene dunque anche nel cuore delle metropoli, influenzata da decisioni che nulla hanno a che fare con la biologia.
In conclusione, l’evoluzione urbana della fauna selvatica è molto più di una questione ecologica. È lo specchio del nostro mondo umano, con le sue crisi, credenze e decisioni politiche. E ci ricorda che ogni nostra scelta, anche la più lontana dalla natura, può lasciare un’impronta profonda su ciò che la natura diventerà.
Una nuova scoperta scientifica potrebbe rivoluzionare uno dei processi industriali più energivori e inquinanti al mondo: la produzione di ammoniaca. Un team di ricercatori ha dimostrato che è possibile sintetizzare ammoniaca sfruttando scariche elettriche simili ai fulmini, in presenza di aria rarefatta. Il risultato? Una tecnologia più pulita, ispirata ai fenomeni naturali.
L’ammoniaca è un composto chimico fondamentale per la produzione di fertilizzanti, e quindi per l’agricoltura globale. Attualmente viene prodotta attraverso il processo Haber-Bosch, che richiede alte temperature e pressioni, consumando enormi quantità di energia e contribuendo significativamente alle emissioni di CO₂. Per questo motivo, trovare metodi alternativi più sostenibili è una priorità della ricerca chimica.
Dai fulmini all’ammoniaca: la natura ispira una rivoluzione sostenibile
I ricercatori si sono ispirati a un processo che avviene naturalmente da milioni di anni: durante i temporali, l’energia dei fulmini è in grado di spezzare le molecole di azoto e ossigeno nell’atmosfera, facendo reagire i gas e generando piccole quantità di composti azotati, tra cui nitrati e ammoniaca. L’idea è stata quella di replicare questo fenomeno in laboratorio, ma in modo controllato.
Utilizzando scariche ad alta tensione in una camera contenente aria rarefatta, il team è riuscito a innescare una reazione tra azoto atmosferico (N₂) e idrogeno per formare ammoniaca (NH₃), senza l’uso di catalizzatori costosi né condizioni estreme. La chiave è stata ridurre la densità dell’aria, facilitando la rottura delle molecole e migliorando l’efficienza del processo.
Anche se ancora in fase sperimentale, questa tecnica rappresenta un passo importante verso una chimica più ecologica. L’approccio potrebbe essere potenziato con l’uso di energia rinnovabile, come quella solare o eolica, per generare le scariche elettriche, rendendo la produzione di ammoniaca a zero emissioni nette.
Un alleato prezioso per il futuro del pianeta
Gli impatti potenziali sono enormi: una produzione di fertilizzanti più sostenibile aiuterebbe a ridurre le emissioni globali e a rendere più accessibili i prodotti agricoli nei paesi in via di sviluppo, dove la carenza di infrastrutture rende difficile l’approvvigionamento industriale di ammoniaca.
Inoltre, il metodo potrebbe essere adattato per produrre ammoniaca in ambienti difficili, come regioni aride o addirittura su altri pianeti, grazie alla semplicità dell’impianto e alla disponibilità di azoto nell’atmosfera. Questo lo rende interessante anche in ottica di esplorazione spaziale e agricoltura autonoma.
In conclusione, la ricerca mostra come l’osservazione dei fenomeni naturali, unita all’innovazione tecnologica, possa aprire strade nuove e sorprendenti per affrontare le grandi sfide ambientali del nostro tempo. Anche un fulmine, se ben canalizzato, può diventare un alleato prezioso per il futuro del pianeta.
Per decenni è stato considerato un problema irrisolvibile: costruire un tetraedro monostabile, una piramide con quattro facce che, indipendentemente da come venga lanciata, cade sempre con la stessa faccia rivolta verso il basso. Un’idea formulata dal matematico John Conway negli anni ’80, poi da lui stesso abbandonata come improbabile. Fino a oggi.
Un team di scienziati guidati dal matematico Gábor Domokos, dall’architetto Gergő Almádi e da Robert Dawson, ha dato forma a quella congettura. Il risultato è Bille, un oggetto straordinario che dimostra come teoria matematica, progettazione ingegneristica e design tecnologico possano fondersi alla perfezione.
Che cos’è un oggetto monostabile
Un oggetto è detto monostabile quando ha una sola posizione stabile di equilibrio. Qualsiasi altra posizione lo porterà inevitabilmente a “raddrizzarsi” fino a raggiungere la sua configurazione naturale. Il caso più noto è il gömböc, scoperto proprio da Domokos nel 2006: una forma curva che si raddrizza da sola.
Ma Bille rappresenta una sfida ancora più complessa: non è rotondo, ma spigoloso e asimmetrico. In termini geometrici, meno facce ha un oggetto, e più piccoli sono gli angoli delle sue facce, più è difficile costruirlo in modo da ottenere una stabilità univoca. Per questo, creare un tetraedro monostabile sembrava un’impresa impossibile.
La svolta: ingegneria e materiali ad alta precisione
Per realizzare Bille, il team ha dovuto superare enormi difficoltà tecniche. Hanno costruito uno scheletro con tubi in fibra di carbonio e concentrato il peso nel lato base con carburo di tungsteno, una lega ultra-densa. Il baricentro dell’oggetto è stato calcolato al millimetro per garantire che solo un lato potesse essere stabile.
Un dettaglio quasi comico ha rischiato di far fallire tutto: una minuscola goccia di colla mal posizionata stava alterando l’equilibrio. Rimossa, l’oggetto ha funzionato perfettamente.
Applicazioni spaziali (e non solo)
Bille non è solo una curiosità matematica. La sua capacità di autoriposizionamento lo rende interessante per applicazioni aerospaziali e robotiche, dove oggetti che si orientano autonomamente possono essere cruciali. Pensiamo, ad esempio, a sonde spaziali che atterrano in ambienti difficili come la superficie lunare o marziana: un design simile potrebbe migliorare la stabilità e ridurre i rischi.
Quando la teoria trova forma
Bille è un perfetto esempio di come idee teoriche, anche se ritenute impossibili, possano diventare realtà grazie alla collaborazione tra matematici, ingegneri e designer. La sua esistenza riscrive una piccola ma affascinante parte della geometria applicata, dimostrando che con le giuste competenze – e un pizzico di ostinazione – anche una piramide può imparare a cadere nel modo giusto.
La calvizie è una condizione molto comune, ma che può essere causata da diversi fattori. Attualmente non esistono rimedi universali per contrastarla, mitigarla o invertirla e ormai sempre più persone si affidano ai trapianti di capelli, sistema ormai rodato ed efficace. Un nuovo studio sembra però aver trovato un nuovo approccio alla versione ereditaria, che di fatto è anche la variante più comune al mondo, sia se si parla di uomini che di donne.
Questa nuova ricerca contro la calvizie ereditaria si sta concentrando su uno zucchero naturale, il desossiribosio, parte fondamentale per il DNA che fa parte dell’acido desossiribonucleico. L’attenzione su questo elemento è nata dopo che è stato usato su cavie da laboratorio per trattare delle ferite. Hanno notato che il pelo attorno alle ferite trattate cresce più velocemente del resto.
Sfruttare uno zucchero naturale per contrastare la calvizie
Partendo da questa osservazione e proseguendo con analisi specifiche sulla ricrescita del pelo dei topi, i ricercatori hanno sviluppato un gel basato su questo zucchero biodegradabile e atossico. La capacità principale del gel è quella di far nascere nuovi follicoli piliferi, al contrario di altri trattamenti che invece si limitano a fortificare quelli già presenti. Si parla quindi di un vero e proprio possibile trattamento contro la calvizie ereditaria.
Le parole dei ricercatori dell’Università di Sheffield: “La nostra ricerca suggerisce che la soluzione per trattare la caduta dei capelli potrebbe essere semplice come utilizzare uno zucchero desossiribosio naturale per aumentare l’afflusso di sangue ai follicoli piliferi e favorire la crescita dei capelli. Si tratta di un’area scarsamente studiata, e quindi sono necessari nuovi approcci. La ricerca che abbiamo condotto è ancora in una fase iniziale, ma i risultati sono promettenti e meritano ulteriori approfondimenti.”
Subito dopo aver appreso che la colorazione principale di iPhone 17 Air sarà un blu molto leggero, emergono online nuove informazioni in merito a quelle che saranno tutte le colorazioni in cui lo smartphone verrà proposto. A quanto pare, il dispositivo riceverà ben 4 varianti differenti tra cui scegliere. Andiamo a scoprirle nel dettaglio.
A dare le informazioni in merito alle colorazioni del nuovo iPhone 17 Air è stato il noto leaker Majin Bu. Questo ha confermato che il dispositivo sarà disponibile nelle varianti nera, argento, oro chiaro e blu chiaro. Come già anticipato qualche giorno fa, non sono previste colorazioni vivaci.
iPhone 17 Air: colorazioni semplici e design sottile
Per far capire meglio quello che sarà il risultato finale delle colorazioni che vedremo sul nuovo 17 Air, il leaker ha descritto le colorazioni nel dettaglio. In particolare:
Colorazione nera: una tonalità scura e sobria, adattabile ad ogni contesto e perfetta per chi cerca un look professionale ed elegante;
Colorazione argento: un colore chiaro e brillante che fornisce un’apparenza pulita e sofisticata;
Colorazione oro chiaro: una tonalità leggera che aggiunge un tocco di originalità senza essere eccessiva.
Colorazione blu chiaro: una colorazione molto leggera che si discosta dalle altre blu proposte fino ad ora da Apple. Questa ricorderà la “Sky Blue” proposta per l’ultimo MacBook Air.
Ricordiamo che lo smartphone verrà presentato a settembre 2025 e arriverà sul mercato nel corso dello stesso mese. Restate in attesa per tutti gli aggiornamenti a riguardo.
Dopo il lancio negli USA qualche settimana fa, Apple ha deciso di portare l’iniziativa “Back to School” anche in Europa. A partire da oggi, 10 luglio 2025 e fino al 21 ottobre 2025, gli utenti che decideranno di acquistare un iPad o un Mac tramite il sito Education della mela morsicata, riceveranno uno sconto per acquistare un secondo prodotto. In alcuni casi lo sconto è addirittura sufficiente per ottenere il dispositivo gratis. Ecco tutti i dettagli a riguardo.
L’iniziativa è partita oggi in vari paesi europei, Italia compresa, e ricordiamo che è proposta in aggiunta agli sconti education (5% su iPad e Mac). In questo articolo andiamo ad elencare nel dettaglio tutti i prodotti promozionati e i bonus correlati.
Apple Back to School Italia: ecco i prodotti in sconto
MacBook Pro e MacBook Air
Coloro che decidono di acquistare un MacBook Air o un MacBook Pro, oltre a ricevere lo sconto del 5% rispetto al listino, potranno ricevere un bonus sull’acquisto dei seguenti prodotti:
Magic Mouse (USB‑C) – Superficie Multi‑Touch bianca: 85 euro di sconto
Magic Mouse (USB‑C) – Superficie Multi‑Touch nera: 119 euro di sconto
Magic Trackpad (USB‑C) – Superficie Multi‑Touch bianca: 119 euro di sconto
Magic Trackpad (USB‑C) – Superficie Multi‑Touch nera: 139 euro di sconto
AirPods 4 con cancellazione attiva del rumore: 199 euro di sconto
AirPods Pro 2: 199 euro di sconto
Magic Keyboard con Touch ID e tastierino numerico – Tasti neri: 229 euro di sconto
iMac
Coloro che decidono di acquistare un iMac, oltre a ricevere lo sconto del 5% rispetto al listino, riceveranno un bonus sull’acquisto dei seguenti prodotti:
AirPods 4 con cancellazione attiva del rumore: 199 euro di sconto
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iPad Air e iPad Pro
Coloro che acquistano un nuovo iPad, oltre a riceve lo sconto del 5% sul prezzo di listino, riceveranno un bonus sull’acquisto dei seguenti prodotti:
Apple Pencil Pro: 139 euro di sconto
Magic Keyboard per iPad Pro/Air: 139 euro di sconto
AirPods 4: 149 euro di sconto
AirPods 4 con cancellazione attiva del rumore: 149 euro di sconto
ShipGoo001 è un essere traslucido, simile a una massa gelatinosa, osservato per la prima volta da un team di scienziati impegnati in una spedizione nelle fosse oceaniche, a oltre 6.000 metri di profondità. Il nome, apparentemente bizzarro, è provvisorio e deriva dal codice assegnato dalla nave di ricerca durante la catalogazione delle immagini raccolte da un robot subacqueo.
Sebbene al momento non sia stata ancora formalmente classificata, la struttura del corpo suggerisce che potrebbe appartenere al vasto gruppo degli invertebrati bentonici, forse affine a cetrioli di mare, meduse o tunicati.
Un habitat estremo: dove nessuno sopravvive
ShipGoo001 sarebbe nata (o sopravvive) in una delle aree più inospitali del pianeta: un ambiente ad alta pressione, con assenza di luce solare, poche fonti di nutrimento e temperature vicine allo zero. In queste condizioni, la vita ha dovuto evolvere strategie estreme di adattamento: corpi flessibili, metabolismo lento, sensibilità alle vibrazioni, e – in alcuni casi – bioluminescenza.
Perché è così interessante per la scienza
Queste scoperte non sono solo curiose, ma rivoluzionarie per la biologia: organismi come ShipGoo001 possono fornire indizi preziosi sull’origine della vita, sull’evoluzione in ambienti estremi e persino sull’esistenza di forme di vita su altri pianeti, ad esempio su Europa (una delle lune ghiacciate di Giove) o Encelado (luna di Saturno), dove si ipotizzano oceani sotterranei simili.
Il mistero continua
Per ora, ShipGoo001 resta un enigma scientifico: ancora non è stato possibile recuperare un esemplare da analizzare in laboratorio senza danneggiarlo, data la delicatezza del suo corpo e la differenza di pressione tra il fondo oceanico e la superficie.
Ma una cosa è certa: questa strana “creatura gelatinosa” ci ricorda quanto ancora poco conosciamo degli abissi marini – un universo nascosto proprio qui, sul nostro pianeta.
Perdere peso non è solo una questione estetica: può avere effetti profondi sulla salute cellulare del nostro corpo. Secondo una recente ricerca, la perdita di peso contribuisce a “ringiovanire” i tessuti adiposi, riducendo la presenza di cellule senescenti, ovvero cellule invecchiate e non più funzionali, spesso associate a infiammazione cronica e malattie metaboliche.
I tessuti adiposi non sono semplici riserve di grasso: svolgono un ruolo attivo nella regolazione ormonale, nell’equilibrio energetico e nei processi immunitari. Con l’età e con l’aumento di peso, queste strutture possono accumulare cellule senescenti che rilasciano sostanze infiammatorie, peggiorando la salute generale dell’organismo.
La perdita di peso elimina le cellule invecchiate e ringiovanisce il corpo
Lo studio, pubblicato su una rivista scientifica internazionale, ha evidenziato che dimagrire in modo sano e graduale stimola la rimozione di queste cellule “zombie”, migliorando la funzionalità del tessuto adiposo e riducendo il rischio di sviluppare patologie come diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e declino cognitivo.
La scoperta è particolarmente significativa perché suggerisce che non serve arrivare al peso forma perfetto per ottenere benefici reali: anche una perdita di peso moderata può attivare meccanismi di pulizia cellulare simili a quelli osservati nei processi di ringiovanimento. In altre parole, ogni chilo perso in eccesso può contare.
I ricercatori hanno osservato che i cambiamenti avvengono anche a livello di espressione genica: nel tessuto adiposo di soggetti che avevano perso peso, si è registrata una maggiore attività di geni coinvolti nella rigenerazione e nella riduzione dell’infiammazione. Un segnale chiaro che il corpo è in grado di “riavviarsi” se stimolato correttamente.
Aprire strade importanti anche per la prevenzione dell’invecchiamento precoce
L’alimentazione bilanciata, l’attività fisica regolare e il controllo dello stress sono gli strumenti chiave per ottenere questo effetto. Ma attenzione: le diete drastiche o sbilanciate, oltre a essere dannose, possono ostacolare proprio quei processi cellulari benefici, causando più danni che benefici.
Questa nuova prospettiva potrebbe aprire strade importanti anche per la prevenzione dell’invecchiamento precoce. Se i tessuti adiposi possono essere “ripuliti” dalle cellule invecchiate attraverso la perdita di peso, potrebbe trattarsi di una strategia concreta per migliorare l’invecchiamento metabolico e generale.
In un’epoca in cui il sovrappeso è un problema globale, questa ricerca offre un messaggio positivo: dimagrire può letteralmente ringiovanire il corpo dall’interno, migliorando salute e benessere a livello profondo, e non solo sulla bilancia.
Negli ultimi decenni, la costruzione di grandi dighe ha cambiato radicalmente il paesaggio idrico della Terra. Queste infrastrutture, progettate per la produzione di energia idroelettrica, l’irrigazione e il controllo delle alluvioni, accumulano enormi quantità di acqua nei loro bacini artificiali. Ora, una nuova ricerca scientifica suggerisce che questa massiccia quantità d’acqua trattenuta sta avendo un effetto sorprendente: sta spostando leggermente i poli terrestri.
Il fenomeno è legato alla distribuzione del peso sul Pianeta. Quando l’acqua si accumula in grandi serbatoi artificiali, cambia la distribuzione della massa sulla superficie terrestre. Questo altera la rotazione del pianeta e la posizione del suo asse, fenomeno noto come “movimento polare”. Anche se il cambiamento è minimo e impercettibile nella vita quotidiana, è significativo per gli scienziati che monitorano con precisione il comportamento della Terra.
L’acqua trattenuta dalle dighe ha spostato i poli terrestri, secondo gli scienziati
Le dighe più grandi, come quella delle Tre Gole in Cina o quella di Hoover negli Stati Uniti, trattenendo miliardi di tonnellate d’acqua, hanno un impatto maggiore su questo equilibrio. Lo studio ha utilizzato dati satellitari e modelli geofisici per quantificare come queste riserve idriche modifichino la distribuzione del peso terrestre. Secondo le stime, il movimento causato dalle dighe è paragonabile ad altri fenomeni naturali come lo scioglimento dei ghiacci o i grandi terremoti.
Questo spostamento non significa che i poli geografici cambieranno drasticamente o che ci saranno conseguenze immediate sulla navigazione o sul clima. Tuttavia, è un segnale di quanto le attività umane influenzino non solo l’ambiente locale, ma anche il sistema Terra nel suo complesso, fino a livelli finora poco considerati.
Oltre all’impatto sul movimento polare, la costruzione delle dighe porta con sé altre sfide ambientali e sociali, come la perdita di habitat naturali, l’alterazione dei corsi d’acqua e lo spostamento delle comunità locali. Questa ricerca aggiunge un ulteriore tassello, evidenziando come la gestione delle risorse idriche debba tenere conto anche di effetti globali.
L’impatto delle attività antropiche sul delicato equilibrio terrestre
Il fenomeno dello spostamento dei poli terrestri non è nuovo; negli ultimi anni anche il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacciai hanno contribuito a modificarlo. Ora però, si comprende meglio come anche le infrastrutture create dall’uomo possano essere protagoniste di questo lento ma costante cambiamento.
Gli scienziati sottolineano l’importanza di monitorare con continuità questi effetti, soprattutto in un’epoca in cui la domanda di acqua e energia è in costante crescita. Solo attraverso dati accurati e analisi multidisciplinari sarà possibile valutare pienamente l’impatto delle attività antropiche sul delicato equilibrio terrestre.
In definitiva, la ricerca sul ruolo delle dighe nel movimento polare ci ricorda che la Terra è un sistema dinamico, in cui ogni azione umana può riverberarsi in modi complessi e spesso inattesi. Un invito a riflettere su come costruire un futuro sostenibile, consapevoli che il nostro Pianeta risponde anche ai piccoli grandi cambiamenti che noi stessi produciamo.
Svegliarsi sudati e spaventati per un incubo può sembrare solo un brutto risveglio. Ma la scienza ora suggerisce che gli incubi frequenti non sono solo un problema psicologico: potrebbero essere un indicatore di un invecchiamento biologico accelerato e di un maggior rischio di morte prematura.
Un gruppo di ricercatori ha analizzato dati clinici e genetici di migliaia di persone per comprendere l’impatto dei disturbi del sonno sulla salute. È emerso che coloro che soffrono di incubi ricorrenti mostrano marcatori biologici compatibili con un’età cellulare più avanzata rispetto a quella anagrafica.
Incubi notturni e morte precoce: cosa ci dice la ricerca sull’età biologica
L’età biologica è una misura della salute delle nostre cellule e dei nostri tessuti, spesso influenzata da stress, stile di vita, malattie e fattori genetici. Quando l’età biologica supera quella cronologica, aumenta il rischio di patologie cardiovascolari, neurodegenerative e perfino la mortalità precoce.
Gli scienziati ipotizzano che gli incubi siano il sintomo visibile di un’attivazione cronica del sistema nervoso, simile a quella causata da stress, ansia o traumi non elaborati. Questa iperattività notturna potrebbe influenzare negativamente il sistema immunitario, aumentare l’infiammazione e favorire il deterioramento cellulare.
Durante il sonno profondo, l’organismo si ripara e rinnova: il sistema immunitario si rafforza, le cellule si rigenerano, il cervello “ripulisce” le tossine. Gli incubi, disturbando il ciclo del sonno e riducendo la qualità del riposo, possono impedire questi processi cruciali, con effetti a lungo termine sulla salute.
Vivere periodi di forte stress lavorativo o relazionale può sviluppare episodi ricorrenti
Le persone che soffrono di disturbi post-traumatici, depressione o ansia tendono a essere più soggette agli incubi. Ma anche chi vive periodi di forte stress lavorativo o relazionale può sviluppare episodi ricorrenti. Riconoscere e trattare questi segnali in tempo è fondamentale per la prevenzione.
Affrontare gli incubi non significa solo “dormire meglio”, ma intervenire sulla salute mentale, sullo stress e sulle abitudini quotidiane. Terapie cognitive, tecniche di rilassamento, igiene del sonno e supporto psicologico possono contribuire a ridurre la frequenza degli incubi e, forse, rallentare l’invecchiamento biologico.
Gli incubi non sono più da considerare semplici fantasie notturne disturbanti, ma segnali da non sottovalutare. Prendersi cura del proprio riposo diventa, alla luce di queste scoperte, una strategia fondamentale per vivere più a lungo, in salute e in equilibrio tra mente e corpo.
Nel cuore della Corea del Sud, un team di scienziati ha raggiunto un traguardo che potrebbe segnare un punto di svolta nella lotta al cambiamento climatico. Al Gwangju Institute of Science and Technology (GIST), i ricercatori hanno sviluppato una tecnologia capace di trasformare l’anidride carbonica (CO₂) in alcol allilico, una sostanza di valore industriale altissimo, ribattezzata da molti come il nuovo “oro liquido”.
Un catalizzatore che cambia le regole del gioco
Il cuore della scoperta risiede in un catalizzatore di rame arricchito con fosforo: un composto di fosfuro di rame (CuP₂) accoppiato a un elettrodo di nichel-ferro (NiFe). Inserito in un reattore elettrochimico, questo sistema ha raggiunto una efficienza di Faraday del 66,9%, quasi quattro volte superiore a quella delle tecnologie esistenti.
Risultati impressionanti anche sul piano operativo: densità di corrente di 735,4 mA/cm² e una produzione di 1643 μmol/cm²/h, numeri che dimostrano la scalabilità industriale del metodo.
Perché l’alcol allilico è così prezioso
L’alcol allilico (C₃H₆O) è una materia prima fondamentale per molti settori: dalle plastiche agli adesivi, dai disinfettanti ai profumi. Attualmente è prodotto da derivati del petrolio, ma la nuova via elettrochimica potrebbe renderlo più sostenibile ed economico, riducendo al contempo le emissioni di CO₂.
Il processo, inoltre, non passa attraverso il monossido di carbonio, come nelle tecniche tradizionali, ma sfrutta un nuovo percorso catalitico basato sulla conversione di formiato in formaldeide, permettendo la formazione diretta di legami carbonio-carbonio (C–C).
Un’arma concreta per l’era della neutralità carbonica
Secondo i ricercatori, questa tecnologia potrebbe cambiare le sorti di intere industrie ad alte emissioni, come quelle del carbone, della petrolchimica e dell’acciaio. La conversione diretta della CO₂ in composti C₃+ liquidi, facilmente stoccabili e trasportabili, apre la strada a un utilizzo circolare della CO₂.
«È un passo decisivo verso una nuova economia industriale sostenibile», ha dichiarato il professor Jaeyoung Lee. «Con questa tecnologia, la CO₂ non è più solo un problema, ma una risorsa da valorizzare».
Prospettive future: dalla scoperta al mercato
Perché questa innovazione possa cambiare davvero il mondo, serviranno investimenti e alleanze tra ricerca e industria. Tuttavia, il potenziale c’è, ed è enorme: produrre combustibili e materiali senza petrolio, riducendo allo stesso tempo le emissioni, è un sogno che inizia a diventare realtà.
L’alcol allilico prodotto da CO₂ potrebbe essere solo il primo di molti composti “verdi” del futuro.
Siamo abituati a immaginare i pianeti come sfere quasi perfette, ma Marte ha una forma irregolare, simile a un pallone da rugby, con tre assi di lunghezza diversa.
Questa triassialità è particolarmente evidente in due regioni:
Tharsis, un altopiano vulcanico con giganteschi rilievi
Syrtis Major, un’area basaltica situata sul lato opposto del pianeta
Ma cosa ha causato questa strana forma? La risposta potrebbe essere… una luna scomparsa.
L’effetto marea di Nerio: la luna che non c’è più
Secondo lo studio dell’astronomo Michael Efroimsky dell’Osservatorio Navale degli Stati Uniti, Marte non è nato con questa forma. A deformarlo sarebbe stata una luna chiamata Nerio, oggi scomparsa.
Come la nostra Luna crea le maree terrestri, Nerio avrebbe esercitato una forza gravitazionale tale da “tirare” la crosta marziana, generando sporgenze e depressioni.
Il pianeta, all’epoca ancora geologicamente plastico, si sarebbe deformato in modo permanente man mano che si raffreddava, “congelando” la sua forma distorta nella crosta.
La luna scomparsa e la geologia di Marte
Lo studio ipotizza che Nerio orbitasse in modo sincrono attorno a Marte, mostrando sempre la stessa faccia al pianeta (come la nostra Luna fa con la Terra).
Questo allineamento avrebbe causato:
Un rigonfiamento lungo un asse principale
Un indebolimento della crosta nelle zone più sollevate
Una maggiore attività vulcanica e tettonica in quelle aree, come la regione di Tharsis
Nerio non era una luna gigantesca: bastava che avesse un terzo della massa della nostra Luna per provocare queste conseguenze.
Che fine ha fatto Nerio?
Nerio oggi non esiste più. Lo studio ipotizza due scenari:
Potrebbe essere stata distrutta da una collisione
Oppure espulsa da un’interazione gravitazionale con un altro corpo celeste
Oggi Marte ha solo due piccole lune: Phobos e Deimos, troppo leggere per causare effetti simili.
Un nuovo modo di vedere i pianeti
Questa teoria non cambia solo il nostro modo di guardare Marte. Ci suggerisce che la forma di un pianeta può conservare tracce di eventi antichi, anche di satelliti ormai scomparsi.
La proposta di Efroimsky, ancora in fase preliminare (è stata pubblicata su arXiv, in attesa di revisione), invita gli scienziati a rileggere le forme dei pianeti come se fossero testimonianze fossili della loro storia orbitale.
La strana forma di Marte potrebbe non essere il risultato di eventi casuali, ma il segno indelebile di una relazione antica con una luna perduta, Nerio.
Una nuova prospettiva che apre affascinanti scenari sulla storia invisibile dei pianeti, scolpita non solo da vulcani e crateri, ma anche da satelliti che, pur scomparsi, hanno lasciato il loro marchio nella geologia.
Nelle scorse settimane si è parlato di quelle che potrebbero essere le nuove colorazioni per i prossimi iPhone 17. È stato detto che sia la versione base che quella Pro riceveranno almeno una colorazione nuova rispetto allo scorso anno. Nulla è stato detto, invece, per quanto riguarda gli iPhone 17 Air. I nuovissimi dispositivi arriveranno sul campo in colorazioni parecchio sbiadite. Secondo un leaker cinese, il colore principale del dispositivo sarà un blu molto chiaro. Ecco tutti i dettagli a riguardo.
Ebbene sì, Apple potrebbe seguire la stessa strada adottata per gli iPad: colorazioni accese per i modelli base, colorazioni “soft” per i modelli Air e colorazioni neutre per i Pro. Se verrà seguita questa logica, i nuovi iPhone 17 Air presenteranno colorazioni che potrebbero non convincere molti utenti.
iPhone 17 Air: la colorazione principale sarà “Barely Blue”?
La colorazione principale di iPhone 17 Air è stata definita dal leaker cinese come “Barely Blue“, una tonalità di blu molto sbiadita che sembrerà addirittura bianca in determinate condizioni di luce. Questa, a quanto pare, sarà la variante che Apple deciderà di promuovere come principale, ma ovviamente non sarà l’unica. Il dispositivo sarà disponibile anche in un altra serie di colorazioni (forse le stesse di iPad Air?), ma tutte saranno sbiadite. Come la prenderanno gli utenti?
Sarà curioso vedere come Apple giustificherà le nuove colorazioni. Ricordiamo che già in passato gli utenti si sono lamentati per i colori poco accessi di iPhone. Accadrà la stessa cosa anche questa volta? Restate in attesa per tutti gli aggiornamenti a riguardo.
L’obesità è una vera e propria epidemia globale, ma colpisce con intensità molto diversa da Paese a Paese. Negli Stati Uniti, oltre il 40% degli adulti è obeso, mentre in Italia la percentuale si aggira intorno al 10%. Come mai due società moderne, con accesso simile ai beni di consumo, mostrano una differenza così marcata?
Una delle risposte principali si trova a tavola. L’Italia è la patria della dieta mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Questo stile alimentare, basato su verdure, legumi, cereali integrali, olio d’oliva e moderate quantità di carne e pesce, aiuta a prevenire malattie cardiovascolari, diabete e obesità.
Obesità: perché colpisce meno gli italiani rispetto agli americani
A differenza della cultura del “fast food” dominante negli USA, gli italiani mantengono un legame profondo con la cucina casalinga e i pasti regolari, spesso consumati in compagnia. Il concetto di “porzione gigante” è poco diffuso, così come l’abitudine di mangiare in auto o davanti alla TV, pratica comune oltreoceano.
Anche la cultura del movimento quotidiano gioca un ruolo importante. In molte città italiane, soprattutto nei centri storici, ci si sposta ancora a piedi o in bicicletta. Al contrario, la struttura urbanistica americana, basata sull’automobile, riduce drasticamente le occasioni di attività fisica spontanea.
C’è poi un aspetto culturale più sottile: in Italia, l’aspetto estetico e la cura del corpo sono ancora considerati importanti valori sociali. Questo si riflette anche in una maggiore attenzione al proprio peso e benessere, sin da giovani. L’immagine corporea è influenzata da modelli diversi rispetto a quelli prevalenti in altri contesti.
Promuovere i punti di forza della nostra tradizione alimentare
Anche le politiche sanitarie e scolastiche contribuiscono: sebbene non perfette, in Italia sono presenti programmi di educazione alimentare nelle scuole, campagne contro la sedentarietà e un sistema sanitario che incoraggia la prevenzione.
Tuttavia, il divario si sta assottigliando. L’obesità infantile è in aumento anche in Italia, complice l’abbandono delle abitudini alimentari tradizionali e l’aumento del consumo di cibi ultraprocessati. Il rischio è che il modello americano venga importato senza filtri, con conseguenze a lungo termine.
In conclusione, gli italiani non sono “geneticamente immuni” all’obesità: il loro vantaggio è culturale, sociale e legato alle abitudini quotidiane. Ma per conservarlo, sarà fondamentale proteggere e promuovere i punti di forza della nostra tradizione alimentare, prima che sia troppo tardi.
Chi usa quotidianamente lo smartphone sa bene quanto sia facile accumulare file, cache, immagini duplicate e video dimenticati. E spesso, anche cancellando manualmente, lo spazio non si libera davvero. Il motivo? Alcune applicazioni conservano dati in un “cestino nascosto”, invisibile all’utente medio ma facilmente accessibile con qualche passaggio.
Si tratta di una procedura semplice e sicura che può restituire centinaia di megabyte — se non gigabyte — di memoria, migliorando le prestazioni del dispositivo.
Dove si trova il “cestino nascosto”?
Molte app, soprattutto quelle di gestione file, galleria o cloud, non eliminano subito i file, ma li spostano in una sorta di area temporanea. Ecco dove cercarlo:
Google Foto
Apri l’app → vai nel menù in basso su “Raccolta” → scorri fino a “Cestino”. Qui vengono conservati per 30 giorni tutti gli elementi eliminati. Tocca “Svuota cestino” per liberare spazio immediatamente.
File di Google (Files by Google)
L’app File ha una sezione “Cestino” tra le sue opzioni principali. Si trova nel menù laterale o nella scheda “Esplora”, in fondo. Qui potresti trovare video, documenti o file audio rimossi ma ancora conservati.
Dropbox / Google Drive / OneDrive
Anche i servizi cloud conservano i file eliminati per un periodo. Vai su “Cestino” o “File eliminati” direttamente dal menù. Attenzione: finché questi file sono lì, occupano spazio nel tuo cloud.
Galleria Samsung o Xiaomi
Le app native di molti telefoni Android conservano foto e video nel Cestino per 30 giorni. Controlla nell’app “Galleria” → “Album” → “Cestino” o “Eliminati di recente”.
Cosa si può trovare al suo interno?
Nel Cestino nascosto spesso si trovano:
Foto duplicate o cancellate per sbaglio
Video ingombranti
Documenti temporanei
Cache e anteprime salvate in background
Note vocali o messaggi vocali già ascoltati
Attenzione però: prima di svuotarlo, verifica che non ci siano file importanti finiti lì per errore.
Perché è utile svuotarlo periodicamente?
Libera memoria interna e cloud
Accelera il telefono
Riduce il rischio di errori o blocchi
Mantiene organizzati i tuoi file
Se il tuo telefono segnala “memoria quasi piena”, o se noti che le app si chiudono da sole o rallentano, svuotare i cestini nascosti è una delle prime operazioni da fare.
Un consiglio extra: automatizza la pulizia
Alcune app, come Files di Google o Clean Master, permettono di programmare pulizie periodiche, oppure inviano notifiche quando i file nel cestino iniziano a occupare troppo spazio.
Svuotare il cestino nascosto non solo ti aiuta a recuperare spazio prezioso, ma migliora la salute generale del tuo dispositivo. Una buona abitudine da inserire nella tua routine digitale, almeno una volta al mese.
Quando si pensa a uno speaker portatile da portare ovunque – dalla spiaggia al bosco, dal balcone alla cima di una montagna – ci si trova sempre di fronte a un compromesso: o si punta tutto sulla qualità audio, sacrificando robustezza e autonomia, o si sceglie la resistenza, a discapito del suono. Ma ecco che a metà 2025, Anker presenta un nuovo contendente nella fascia media degli speaker rugged: il Soundcore Boom 3i. E la promessa è ambiziosa: un suono potente, una costruzione a prova di tutto e una serie di funzioni smart che lo rendono più di un semplice altoparlante Bluetooth.
Ma è davvero all’altezza? Lo abbiamo messo alla prova in ogni situazione, dall’asfalto rovente di una città in piena estate ai tuffi in piscina, fino ai tramonti in spiaggia con la musica a tutto volume. Il risultato? Una sorpresa, sotto molti punti di vista.
Primo impatto: design che parla chiaro
Appena estratto dalla confezione, il Boom 3i dà subito l’impressione di essere stato progettato per durare. Il corpo, costruito in plastica ABS rinforzata, è avvolto da inserti in tessuto tecnico che non solo danno un tocco sportivo ma migliorano anche il grip. Anche con mani bagnate o sabbiose, lo speaker si impugna senza fatica. È evidente che Soundcore ha preso sul serio le esigenze degli utenti outdoor, curando anche il più piccolo dettaglio.
Le dimensioni – 210 x 85 x 78.5 mm – lo rendono facilmente trasportabile ma abbastanza imponente da farsi notare. Non è un mini speaker da tasca, ma non dà neanche fastidio nello zaino. Merito anche della solida maniglia superiore in alluminio spazzolato con rivestimento in gomma: si tiene bene in mano, non scivola, e resiste senza problemi a urti e torsioni.
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Sui lati si notano i radiatori passivi, incorniciati da un anello LED multicolore che può essere personalizzato tramite app. Le luci non sono solo estetica: aiutano anche a rendere visibile lo speaker al buio, ad esempio in campeggio o durante una festa serale. Volendo, possono essere disattivate per risparmiare batteria o passare inosservati.
Audio: un cuore potente da 50W che non delude
Il Boom 3i è progettato per stupire non solo per l’aspetto, ma soprattutto per ciò che sa fare quando la musica parte. 50 watt reali sprigionati da un sistema con woofer ottimizzati e radiatori passivi laterali: una combinazione che garantisce bassi profondi e presenti, ma anche un’eccellente resa dei medi e un buon dettaglio sugli alti.
La firma sonora di Soundcore è immediatamente riconoscibile. A volumi medi, in ambienti chiusi, sorprende la chiarezza delle voci e la distinzione degli strumenti. Ma è all’aperto che la cassa dà il meglio di sé. Anche in presenza di vento, rumori di fondo o distanza tra ascoltatori e speaker, il Boom 3i mantiene corpo e definizione. Il merito va anche al sistema BassUp 2.0, che non si limita a “pompare” i bassi, ma li rende dinamici e controllati.
Durante le prove con diversi generi – elettronica, jazz, hip-hop, rock, acustica – lo speaker si è adattato senza problemi, mostrando una versatilità rara nella fascia di prezzo. Fino all’85% del volume massimo, la distorsione è minima. Solo spingendolo oltre si nota una compressione della dinamica, ma resta perfettamente utilizzabile anche per party con molte persone.
Connettività e funzioni extra: molto più di un altoparlante
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Dal punto di vista della connettività, il Boom 3i si affida al collaudato Bluetooth 5.3, che assicura una connessione stabile e veloce fino a 10 metri, anche in ambienti affollati. Nelle prove reali – parchi cittadini, spiagge affollate – non abbiamo mai riscontrato interruzioni o lag. Oltre al wireless, c’è anche l’ingresso AUX da 3.5mm per chi preferisce le sorgenti cablate. Sul retro, protette da uno sportellino in gomma ermetico, troviamo anche una porta USB-C per la ricarica rapida e un’uscita USB-A che consente di usare il Boom 3i come power bank. Una comodità non da poco per chi è in giro tutto il giorno e deve ricaricare il telefono.
Un plauso va anche all’integrazione software. L’app Soundcore per iOS e Android permette di personalizzare ogni aspetto dell’esperienza: dalla gestione dei LED alla configurazione dell’equalizzatore a 9 bande, passando per la selezione di preset come “Voice”, “BassUp” o “Treble Boost”. La modalità PartyCast 2.0 consente il collegamento simultaneo fino a 100 speaker compatibili, mentre il pairing stereo con un secondo Boom 3i crea un’esperienza d’ascolto sorprendentemente immersiva. Tra le chicche più curiose c’è il Voice Amplifier, che trasforma il Boom 3i in un megafono – utile per annunci, lezioni o escursioni di gruppo. Non manca nemmeno una sirena di emergenza e una funzione chiamata Buzz Clean, che utilizza frequenze specifiche per espellere sabbia e acqua dalle membrane dopo immersioni.
Batteria e ricarica: lunga durata, ricarica veloce
Una delle principali preoccupazioni degli utenti in mobilità è l’autonomia. Il Boom 3i promette fino a 24 ore di riproduzione, ma nella realtà – con uso misto, volume al 60% e LED attivi – si assesta intorno alle 16 ore effettive, un risultato assolutamente soddisfacente per uno speaker da 50W. Con il caricatore giusto (30W), si passa dallo 0 al 50% in meno di un’ora, e si arriva al 100% in circa tre ore. L’indicatore LED a tre colori (verde, giallo, rosso) offre una lettura immediata dello stato della batteria. Anche l’uso come power bank ha un impatto contenuto: si riesce a ricaricare uno smartphone standard senza prosciugare completamente la cassa.
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Un punto di forza spesso trascurato è la gestione termica: anche dopo ore di riproduzione ad alto volume, lo speaker non si surriscalda. Solo sotto il sole diretto e temperature superiori ai 35°C si nota un lieve calo prestazionale, segno che entra in funzione un sistema di protezione termica intelligente.
Robustezza estrema: pronto per ogni avventura
La certificazione IP68 non è solo un numero. Il Boom 3i è davvero impermeabile: può essere immerso completamente in acqua, rotolato nella sabbia, lasciato sotto la pioggia battente – e continuerà a suonare. Dopo test estremi (acqua salata, cadute su cemento, esposizione al sole), non abbiamo rilevato alcun malfunzionamento.
L’aspetto più sorprendente? Galleggia. Non solo: galleggia nel verso giusto, con i driver rivolti verso l’alto, continuando a riprodurre musica. Una feature perfetta per chi pratica sport acquatici o semplicemente vuole ascoltare la playlist preferita mentre si rilassa in piscina. Anche la resistenza agli urti è eccellente. Le cadute da un metro non lasciano alcun danno strutturale, solo qualche graffio superficiale. La griglia metallica anteriore è spessa e ben ancorata, i materiali sono solidi e assemblati con precisione. La maniglia in alluminio resiste senza problemi a carichi elevati, ed è stata testata anche con zaini pieni agganciati.
Un equilibrio raro tra prezzo, prestazioni e versatilità
Il Boom 3i non è il più potente sul mercato, né il più raffinato. Ma è probabilmente il più bilanciato nella sua fascia. Mentre concorrenti come JBL Xtreme 4 o Sony XG300 puntano su specifici vantaggi – maggiore potenza, luci più spettacolari o codec avanzati – Soundcore sceglie un approccio più sobrio ma estremamente efficace. Certo, manca il supporto ad aptX o AAC, e l’app potrebbe essere più moderna nel design. Tuttavia, l’esperienza d’uso resta fluida e convincente. La qualità audio è più che soddisfacente, le funzioni smart abbondano, e la costruzione lo rende un vero “tuttofare” da portare ovunque senza pensieri.
Conclusione: un compagno musicale per tutte le stagioni
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Il Soundcore Boom 3i è più di uno speaker: è un compagno di viaggio, un amplificatore di emozioni, uno strumento di connessione. Che si tratti di una serata tra amici sotto le stelle, di un’escursione tra i boschi o di una festa improvvisata al parco, c’è sempre posto per lui.
Non è perfetto, ma è dannatamente completo. E soprattutto, fa quello che promette. In un mondo di dispositivi che a volte sembrano costruiti solo per stupire con funzioni inutili, il Boom 3i va dritto al punto: riproduce musica forte, bene, ovunque.
Disponibile ad un prezzo di listino di 129 euro su Amazon (a questo link), ma solo per i giorni dell’Amazon Prime day è in promozione a 99 euro.
Per anni è stata al centro di un acceso dibattito tra medici e ricercatori: la terapia ormonale sostitutiva (TOS) nelle donne in menopausa precoce fa bene o male al cuore? Ora, una nuova e autorevole ricerca mette fine alla confusione, affermando chiaramente che la TOS può offrire benefici significativi per la salute cardiovascolare nelle donne che entrano in menopausa prima dei 45 anni.
Pubblicato su una rivista scientifica di riferimento, lo studio ha analizzato i dati di migliaia di donne seguite per oltre un decennio. I risultati mostrano che chi ha assunto estrogeni dopo la menopausa precoce ha registrato una minore incidenza di malattie cardiache, infarti e altre complicazioni vascolari, rispetto a chi non ha fatto uso di terapia ormonale.
Terapia ormonale e cuore: svolta per le donne in menopausa precoce
Questo rovescia anni di prudenza e confusione, nati da studi precedenti che avevano indicato un possibile aumento del rischio cardiovascolare con l’uso della TOS. Tuttavia, i ricercatori spiegano che molti di quei dati si riferivano a donne in menopausa avanzata o già con problemi cardiaci, non a chi entra in menopausa in età precoce, condizione che di per sé aumenta il rischio cardiovascolare.
La menopausa precoce, che può verificarsi spontaneamente o a seguito di trattamenti medici, priva il corpo degli effetti protettivi degli estrogeni in un momento in cui il cuore e i vasi sanguigni ne hanno ancora bisogno. In questo contesto, la terapia ormonale ripristina un equilibrio fisiologico che riduce l’infiammazione, migliora i livelli di colesterolo e favorisce la salute delle arterie.
Gli esperti precisano che i benefici maggiori si osservano quando la terapia viene avviata entro pochi anni dall’inizio della menopausa precoce, e che la personalizzazione è fondamentale: non tutte le donne ne hanno bisogno, e non tutte reagiscono allo stesso modo. Ma per molte, la TOS può rappresentare un’opportunità di prevenzione oggi supportata da solide evidenze.
Una risposta rassicurante, aprendo la strada a cure più mirate ed efficaci
Il nuovo studio invita quindi a superare i pregiudizi e a riconsiderare la terapia ormonale nel caso di menopausa anticipata, non solo per la qualità della vita — spesso compromessa da sintomi intensi — ma anche per la salute a lungo termine. I benefici sembrano infatti estendersi anche alla protezione ossea e al benessere cognitivo.
Naturalmente, la terapia ormonale va sempre prescritta da un medico, dopo un’attenta valutazione dei fattori di rischio individuali. Ma con i dati attuali, la paura generalizzata sembra non avere più una base scientifica, almeno per questa categoria di donne.
In definitiva, il messaggio dei ricercatori è chiaro: nelle donne in menopausa precoce, la terapia ormonale può salvare il cuore. Dopo anni di incertezza, la scienza offre una risposta rassicurante, aprendo la strada a cure più mirate ed efficaci.
Quando pensiamo a cosa bere per idratarci, la risposta sembra ovvia: l’acqua è la regina dell’idratazione. Ma secondo una ricerca dell’Università di Dundee, in Scozia, non è la bevanda più efficace per mantenere il corpo idratato a lungo. I risultati, pubblicati sul American Journal of Clinical Nutrition, hanno infatti rivelato che alcune bevande comuni possono superare l’acqua in termini di durata dell’idratazione.
Lo studio ha confrontato gli effetti di diverse bevande su un gruppo di volontari, osservando come si comportavano nei 4 ore successive all’assunzione. Sorprendentemente, il latte scremato si è classificato come più idratante dell’acqua naturale. Anche le soluzioni per la reidratazione orale (usate contro la disidratazione da diarrea o sforzi intensi) e persino alcune bevande analcoliche hanno ottenuto punteggi più alti.
Il latte idrata più dell’acqua? Lo studio che cambia le regole
Il motivo sta nella composizione delle bevande: la presenza di zuccheri, elettroliti, proteine o grassi rallenta lo svuotamento gastrico, consentendo al corpo di assorbire meglio i liquidi e trattenerli più a lungo. Per esempio, il latte contiene sodio, potassio e lattosio, elementi che favoriscono l’equilibrio idrico e aiutano il corpo a trattenere l’acqua più a lungo rispetto a una semplice bottiglietta d’acqua.
Questo non significa che l’acqua sia da evitare: resta una scelta fondamentale, priva di calorie e sempre consigliabile in numerose situazioni. Tuttavia, in condizioni particolari – come dopo un’attività fisica intensa, in estate o in caso di disidratazione – optare per bevande ricche di nutrienti può risultare più utile per ristabilire l’equilibrio dei fluidi corporei.
Tra le bevande classificate come più idratanti, oltre al latte scremato, ci sono anche tè freddo leggero, succo d’arancia diluito, e soluzioni saline apposite (spesso usate in ambito sportivo o medico). Viceversa, l’alcol e il caffè in eccesso possono avere l’effetto opposto, aumentando la diuresi e riducendo l’idratazione.
Raffinare il concetto di idratazione
Il concetto chiave, secondo gli autori dello studio, è che idratazione non significa solo bere, ma anche trattenere i liquidi nel corpo. In quest’ottica, scegliere bevande che aiutano il bilancio idrico può fare la differenza, specie per anziani, sportivi o persone con particolari esigenze fisiologiche.
In conclusione, questo studio non mira a “demonizzare” l’acqua, ma a raffinare il concetto di idratazione, ricordandoci che anche ciò che accompagna l’acqua nel nostro bicchiere conta. La prossima volta che ci sentiamo assetati, forse un bicchiere di latte – o una bevanda bilanciata – potrebbe essere la risposta più efficace.
L’umanità si considera la specie dominante sulla Terra, custode della tecnologia più avanzata mai sviluppata sul pianeta. Eppure, una domanda affascinante – quasi inquietante – continua a emergere tra scienziati, filosofi e scrittori: e se non fossimo i primi?
Potrebbe essere esistita, milioni di anni fa, una civiltà tecnologicamente avanzata, poi svanita senza lasciare tracce evidenti?
La “Ipotesi Siluriana”: fantascienza o possibilità scientifica?
A porre per primi la questione in termini scientifici sono stati lo scienziato planetario Gavin Schmidt e l’astrofisico Adam Frank, in un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista International Journal of Astrobiology. La loro teoria, chiamata Ipotesi Siluriana, parte da un paradosso: se una civiltà avanzata fosse esistita milioni di anni fa, oggi ne avremmo davvero prove?
Secondo gli autori, le tracce di una civiltà industriale potrebbero scomparire quasi completamente dopo milioni di anni, soprattutto in un pianeta soggetto a erosione, movimenti tettonici e processi naturali ciclici come la subduzione delle placche.
Che tipo di tracce potrebbero sopravvivere?
Se una civiltà simile alla nostra avesse dominato la Terra nel Mesozoico o addirittura prima, i manufatti e gli edifici sarebbero già scomparsi. Tuttavia, potrebbero rimanere impronte geochimiche nei sedimenti, come variazioni anomale nei livelli di carbonio, metalli rari, plastica fossile o isotopi radioattivi.
Ad esempio, il nostro impatto ambientale – l’Antropocene – sarà visibile nelle rocce del futuro sotto forma di CO₂, microplastiche, pesticidi e cemento. Se ritrovassimo strati simili nel passato, potrebbero rappresentare un indizio.
Un passato che non conosciamo?
Molti restano scettici, e a ragione: nessuna prova concreta di una civiltà tecnologica preumana è mai stata trovata. Tuttavia, la storia della Terra è così lunga – oltre 4,5 miliardi di anni – e la presenza dell’uomo moderno così recente (circa 300.000 anni) che l’idea di una “civiltà fantasma” non può essere del tutto esclusa.
Alcuni ipotizzano che un eventuale evento catastrofico – impatti asteroidali, glaciazioni estreme, inversioni magnetiche – possa aver cancellato tutto, lasciando solo poche tracce chimiche o fossilizzate.
Perché questa ipotesi ci affascina tanto?
Forse perché ci obbliga a relativizzare la nostra centralità nella storia del pianeta. Se altre civiltà sono esistite e si sono estinte, cosa ci rende diversi?
Oppure, al contrario, potrebbe darci una lezione preziosa: la tecnologia non basta a garantire la sopravvivenza, e la memoria storica è fragile. Forse la nostra stessa civiltà sarà un giorno solo un’ombra nei sedimenti del tempo.
In attesa di risposte, la domanda resta aperta. E, forse, anche il mistero.
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Un recente studio internazionale ha rivelato che la Terra potrebbe essere molto più sensibile ai gas serra di quanto si ritenesse in passato. Questo significa che, a parità di emissioni, l’aumento della temperatura globale potrebbe essere più rapido e intenso. I modelli climatici, quindi, potrebbero aver sottovalutato la velocità del cambiamento.
La sensibilità climatica misura di quanto aumenta la temperatura media della Terra in risposta al raddoppio della CO₂ atmosferica. Fino a poco tempo fa, si stimava un range tra 1,5 e 4,5 gradi Celsius. Ora, nuove analisi suggeriscono che il valore potrebbe superare i 5 gradi, un salto potenzialmente drammatico.
La Terra reagisce più del previsto ai gas serra: l’allarme degli scienziati
Grazie a modelli climatici più avanzati e a simulazioni basate su dati paleoclimatici e satellitari, i ricercatori hanno ricalcolato le reazioni del sistema Terra. Questi modelli tengono conto di meccanismi che in passato erano sottovalutati, come l’assorbimento del calore da parte degli oceani e l’effetto amplificante delle nuvole sottili.
Un punto chiave è la presenza dei cosiddetti feedback, cioè meccanismi di amplificazione. Ad esempio, quando il ghiaccio artico si scioglie, lascia spazio a superfici scure che assorbono più calore. Questo effetto a catena accelera il riscaldamento e rende la Terra ancora più reattiva ai gas serra.
Se la sensibilità climatica è maggiore, significa che le attuali soglie di sicurezza – come il limite dei +1,5 °C dell’Accordo di Parigi – potrebbero essere raggiunte prima del previsto. Questo impone un’accelerazione nelle politiche di riduzione delle emissioni e nell’adozione di energie rinnovabili.
Alcuni segnali sono già sotto i nostri occhi
Gli scienziati sottolineano che alcuni segnali sono già sotto i nostri occhi: ondate di calore più frequenti, scioglimento record dei ghiacci, incendi devastanti. Questi fenomeni, sempre più estremi, potrebbero essere solo un’anteprima di ciò che ci attende se non si agisce con decisione.
Alla luce di queste nuove evidenze, la comunità scientifica chiede interventi immediati. Non si tratta solo di “salvare il pianeta”, ma di preservare le condizioni che rendono la Terra abitabile per l’uomo. La finestra d’azione si sta restringendo e ogni anno perso pesa sempre di più.
La maggiore sensibilità ai gas serra non è solo una questione tecnica: è un richiamo alla responsabilità collettiva. Ogni scelta energetica, alimentare o economica può contribuire al cambiamento. Comprendere la reale fragilità del nostro sistema climatico è il primo passo per proteggerlo.
Un nuovo misterioso oggetto ha fatto la sua comparsa nel nostro vicinato cosmico. Si chiama 3I/ATLAS ed è il terzo oggetto interstellare mai rilevato mentre attraversa il Sistema Solare, dopo i celebri ‘Oumuamua (2017) e 2I/Borisov (2019). La sua traiettoria e la sua velocità indicano chiaramente che non proviene dal nostro Sole, ma da un altro sistema stellare.
Un arrivo inaspettato da un altro mondo
3I/ATLAS è stato avvistato il 1° luglio 2025 da un telescopio in Cile e confermato poche ore dopo. La sua scoperta ha sorpreso gli astronomi: non solo perché è raro individuare un oggetto interstellare, ma anche perché questa volta è stato avvistato prima che passasse accanto al Sole.
“È stato come uno scherzo degli dei dell’astronomia”, ha dichiarato con ironia Chris Lintott dell’Università di Oxford. Gli scienziati avevano previsto di dover attendere l’avvio dell’Osservatorio Vera Rubin per individuare un nuovo visitatore alieno. Invece, l’occasione si è presentata in anticipo.
Un’opportunità unica per studiare un altro sistema stellare
3I/ATLAS è diretto verso l’interno del sistema solare ma non rappresenta alcuna minaccia per la Terra: passerà a circa 240 milioni di chilometri di distanza. La sua velocità è così elevata che non verrà catturato dalla gravità solare, e dopo il passaggio scomparirà per sempre nel cosmo.
Grazie al preavviso, gli astronomi potranno monitorarlo per mesi, fino al 2026, ottenendo dati preziosi su composizione, struttura e origine. L’obiettivo è comprenderne l’origine stellare e ricavare informazioni su come si formano i pianeti in altre parti della galassia.
Un “frammento” alieno che racconta storie lontane
Secondo le stime iniziali, 3I/ATLAS potrebbe avere un diametro di circa 20 km. La sua traiettoria “quasi rettilinea” e la velocità lo rendono inconfondibilmente interstellare. Come spiega l’astronoma Pamela Gay, si tratta di una vera e propria “reliquia congelata” di un altro sistema planetario.
A differenza di ‘Oumuamua, osservato solo per poche settimane, e Borisov, una cometa classica ma straniera, 3I/ATLAS offre una finestra senza precedenti sullo spazio profondo. Non solo consente lo studio della sua composizione, ma potrebbe persino aiutare a validare modelli sull’origine della vita e dei materiali organici.
La caccia agli oggetti interstellari è appena cominciata
Con l’avvio imminente dell’Osservatorio Vera Rubin, gli astronomi sperano di rilevare regolarmente oggetti interstellari, e non solo per caso. La scoperta di 3I/ATLAS anticipa questa nuova era. E ci ricorda che, mentre osserviamo il cielo, altri mondi ci passano accanto, anche se solo per un breve saluto cosmico.
Quando si parla di alimentazione e proteine, la carne è spesso vista come la regina della tavola. A parità di peso, contiene infatti molte più proteine delle verdure. Ma perché esiste questa differenza così marcata? La risposta sta nella composizione cellulare e nella funzione biologica dei diversi alimenti.
Le proteine sono macromolecole formate da catene di amminoacidi, fondamentali per la costruzione e il mantenimento dei tessuti del corpo. Sono essenziali per muscoli, enzimi, ormoni e per il sistema immunitario. Ma non tutte le fonti proteiche sono uguali: alcune sono più concentrate, complete e facilmente assimilabili.
Carne vs verdure: perché le proteine non sono tutte uguali
La carne è costituita principalmente da tessuto muscolare animale, ricco di proteine strutturali come l’actina e la miosina. Le verdure, invece, sono composte in gran parte da acqua, fibre e carboidrati complessi, e la loro funzione principale non è il movimento (come nei muscoli), ma la fotosintesi o il sostegno della pianta.
In 100 grammi di carne magra ci possono essere dai 20 ai 30 grammi di proteine complete. Nello stesso peso di verdure come spinaci o broccoli, si trovano solo 2-3 grammi di proteine, spesso incomplete (cioè mancanti di uno o più amminoacidi essenziali). Questo non le rende inutili, ma meno concentrate.
Oltre alla quantità, conta anche la qualità proteica: le proteine della carne sono facilmente digeribili e contengono tutti gli amminoacidi essenziali, mentre quelle vegetali a volte richiedono combinazioni (es. legumi + cereali) per essere complete. La biodisponibilità è quindi un altro punto a favore della carne.
Una dieta ben bilanciata può comunque coprire il fabbisogno proteico anche senza carne
Esistono però fonti vegetali particolarmente ricche di proteine, come soia, quinoa, lenticchie e ceci. Anche le alghe, i semi e alcuni legumi hanno un buon contenuto proteico, sebbene inferiore a quello delle fonti animali. Una dieta ben bilanciata può comunque coprire il fabbisogno proteico anche senza carne.
La differenza tra carne e verdure deriva anche da milioni di anni di evoluzione: gli animali hanno sviluppato muscoli per muoversi e cacciare, mentre le piante hanno investito in strutture leggere ed energeticamente efficienti per crescere e riprodursi. Le funzioni diverse si riflettono anche nel contenuto nutritivo.
Oggi, con l’avvento delle diete vegetariane, vegane e sostenibili, è sempre più importante conoscere le differenze tra le fonti proteiche. Comprendere perché la carne contiene più proteine aiuta non solo a sfatare falsi miti, ma anche a costruire un’alimentazione equilibrata, consapevole e adatta alle esigenze di ciascuno.
Le Hawaii si stanno spostando. No, non è fantascienza: è geologia. Ogni anno, questo arcipelago vulcanico dell’Oceano Pacifico si avvicina al Giappone di circa 10 centimetri. Il fenomeno, misurato con precisione dai satelliti GPS, è una testimonianza concreta di quanto la superficie terrestre sia dinamica e viva, anche se spesso impercettibile ai nostri occhi.
Alla base di questo lento ma costante movimento c’è il funzionamento delle placche tettoniche, enormi porzioni della crosta terrestre che galleggiano sul mantello fluido sottostante. Le Hawaii si trovano sulla placca del Pacifico, la più grande tra quelle che compongono la litosfera del pianeta. Questa placca si muove costantemente verso nord-ovest, in direzione del Giappone.
Le Hawaii si avvicinano al Giappone: ecco perché si muovono ogni anno
Il movimento non è una novità: da milioni di anni, la placca del Pacifico si sposta a una velocità media di 7-10 centimetri all’anno. È proprio grazie a questo processo che si sono formate le isole Hawaii, una dopo l’altra, mentre la placca scivolava sopra un “punto caldo” nel mantello terrestre, che produce magma in modo continuo. Quando il magma sale in superficie, forma nuove isole vulcaniche.
Questo significa che le Hawaii più giovani sono quelle più a sud-est, come Big Island, dove si trova ancora un’intensa attività vulcanica. Le isole più vecchie, come Kauai, sono invece più a nord-ovest e si allontanano progressivamente dal punto caldo, erodendosi nel tempo. È una sorta di nastro trasportatore geologico che plasma l’arcipelago e lo sposta lentamente sull’oceano.
La direzione verso il Giappone è una coincidenza geografica: le Hawaii non arriveranno mai veramente a toccare le coste nipponiche. Tuttavia, il fatto che si stiano muovendo dimostra quanto sia attiva la Terra sotto di noi. Questi movimenti, infatti, sono gli stessi che causano terremoti, formazione di catene montuose e apertura di nuovi oceani.
Prevenzione dei disastri naturali
La misurazione precisa di questi spostamenti è possibile grazie alla tecnologia GPS ad alta precisione, che permette ai geologi di monitorare il movimento delle placche in tempo reale. Queste informazioni sono fondamentali anche per la prevenzione dei disastri naturali, perché aiutano a comprendere meglio le aree a rischio sismico o vulcanico.
Il caso delle Hawaii è un esempio affascinante di come la geologia possa raccontare storie di trasformazioni lente ma profonde. È un invito a guardare il nostro pianeta non come un’entità statica, ma come un sistema in continuo mutamento, dove anche ciò che sembra immobile si muove con forza e determinazione.
In conclusione, le Hawaii non stanno ferme: si muovono, lentamente ma inesorabilmente, avvicinandosi al Giappone di 10 centimetri l’anno. Un piccolo spostamento su scala umana, ma una prova gigantesca del potere della Terra di modellarsi, evolversi e sorprendere.